21 febbraio 2007

LE FESTE ROMANE: SANTA FRANCESCA ROMANA

E... LA BENEDIZIONE DELLE AUTOMOBILI

Ebbene si, avete letto giusto: così come in occasione di Sant'Antonio Abate si benedicono gli animali il 9 marzo, giorno di Santa Francesca Romana (la co-patrona di Roma insieme ai Santi Pietro e Paolo), fin dal 1951 si benedicono i mezzi di locomozione cittadina.
Francesca "Ceccolella" Bussa de' Leoni, nacque a Roma nel 1384 da una famiglia nobile e ricca: pur essendo suo desiderio votarsi alla vita monastica, non poté sottrarsi alla scelta che per lei avevano fatto i suoi genitori, cosa normale a quei tempi, di darla in sposa a Lorenzo de' Ponziani, al fine di potersi alleare con la sua più blasonata famiglia (anche se in origine il loro mestiere era stato quello di macellai). Francesca, tredicenne, venne quindi data in sposa all'altrettanto ricco e nobile Lorenzo, e si trasferì nella sua casa nobiliare a Trastevere. Avendo dovuto subire questa decisione forzata, cadde in uno stato di prostrazione (oggi probabilmente si direbbe "vittima dell'anoressia") ed i familiari tentarono invano di confortarla finchè, all’alba del 16 luglio 1398, le apparve in sogno sant’Alessio, che la esortò con le seguenti parole: “Tu devi vivere… Il Signore vuole che tu viva per glorificare il suo nome”. Da quel giorno Francesca iniziò una nuova vita, spinta da quell'apparizione, e diede alla luce tre figli, due dei quali però successivamente morirono di peste.

Avendo dovuto rinunciale alla stretta vita monacale si dedicò all'aiuto dei bisognosi e nel 1425 fondò la Congregazione delle Oblate Olivetane di Santa Maria Nuova, dette anche Oblate di Tor de' Specchi.
Nel 1401 il suocero Andreozzo Ponziani le affidò le chiavi delle dispense, dei granai e delle cantine del palazzo, essendogli morta la moglie che se ne occupava con capacità; Francesca ne approfittò per aumentare gli aiuti ai poveri e in pochi mesi i locali furono svuotati. Il suocero le ritirò prontamente le chiavi, ma pochi giorni dopo sia i granai che le botti del vino erano di nuovo prodigiosamente pieni. Andreozzo, che nel 1391 aveva fondato l’Ospedale del Santissimo Salvatore, utilizzando la navata destra di una chiesa abbandonata, restituì le chiavi alla caritatevole nuora. A questo punto Francesca decise di dedicarsi sistematicamente all’opera di assistenza; con il consenso del marito Lorenzo, vendette tutti i vestiti preziosi ed i gioielli di famiglia, elargendo il ricavato ai poveri. Un gruppo di donne, perlopiù facenti parte di nobili e ricche famiglie, ne seguì l’esempio e con esse Francesca iniziò a coltivare un campo nei pressi di San Paolo, da cui ricavava frutta e verdura da fornire ai poveri. Alla morte del suocero Francesca si occupò dell’Ospedale del SS. Salvatore, andando anche in giro per la città a chiedere elemosine per i poveri, tanto che venne soprannominata “la poverella di Trastevere”.

Francesca ricevette ulteriori celesti illuminazioni, che riferiva al suo confessore Giovanni Mariotto, che le trascrisse: esse si riferivano, in particolare a frequenti lotte della santa col demonio, del suo viaggio mistico nell’inferno e nel purgatorio, delle tante estasi che le capitavano e poi dei prodigi e guarigioni che le venivano attribuite già al tempo. Nel 1409, suo marito Lorenzo, comandante delle truppe pontificie, durante una battaglia contro Ladislao di Durazzo re di Napoli, venne gravemente ferito, rimanendo semiparalizzato per il resto della vita: durante tale periodo venne accudito dalla moglie e dal figlio. Nel 1410 a Roma ci fu l’epidemia di peste e Francesca pagò cara, con la vita di due dei tre figli, l'impudenza di aver schiuso agli appestati le porte del proprio palazzo; lei stessa rimase contagiata in modo non letale e riuscì a salvarsi. È di quel periodo l’apparizione in sogno del piccolo figlio Evangelista, insieme con un Angelo misterioso, che Francesca da allora avrebbe visto accanto a sé per tutta la vita.


Successivamente a questo fatto, e dormendo solo due ore per notte, prese a dirigere spiritualmente il gruppo di accolite, che la coadiuvavano nella carità quotidiana e che si riunivano ogni settimana nella chiesa di Santa Maria Nova. Durante uno di questi incontri, Francesca le invitò a riunirsi in una confraternita consacrata alla Madonna, pur avendo ognuna la facoltà di rimanere nella propria casa, ma impegnandosi a vivere le virtù monastiche e donare ai poveri il proprio impegno. Il 15 agosto 1425 festa dell’Assunta, davanti all’altare della Vergine, undici donne si costituirono in associazione con il nome di “Oblate Olivetane di Maria”, aggregandosi idealmente all’Ordine Benedettino. Nel marzo del 1433 Francesca le riunì a Tor de’ Specchi e il 21 luglio dello stesso anno papa Eugenio IV° elevò la comunità a Congregazione, con il titolo di “Oblate della Santissima Vergine”, in seguito poi dette “Oblate di Santa Francesca Romana”. Francesca continuò ad abitare nel Palazzo Ponziani, per accudire il marito malato ma, dopo la sua morte, il 21 marzo 1436 lasciò la sua casa, affidandone l’amministrazione al figlio Battista, e si unì alle compagne a Tor de’ Specchi dove fu eletta superiora, prendendo il secondo nome di "Romana". Trascorse gli ultimi quattro anni della sua vita nel convento.
La "santa di Roma" non morì nel suo monastero, ma nel palazzo Ponziani, perché da pochi giorni vi era tornata per assistervi il figlio Battista gravemente ammalato; dopo poco tempo il figlio guarì ma lei morì il 9 marzo 1440. Fu sepolta sotto l’altare maggiore della chiesa di Santa Maria Nova, che avrebbe poi preso il suo nome. Da subito ci fu un notevole afflusso di fedeli, tale che la ricorrenza del giorno della sua morte, con decreto del Senato del 1494, fu stabilito giorno festivo. Fu proclamata santa il 29 maggio 1608 da papa Paolo V° e papa Urbano VIII° volle nella chiesa di Santa Francesca Romana un tempietto con quattro colonne ed una statua che la raffigura in compagnia dell’Angelo Custode che l’aveva assistita tutta la vita.
Santa Francesca Romana, co-patrona di Roma, viene invocata come protettrice dalle pestilenze, per la liberazione delle anime dal Purgatorio e, dal 1951, degli automobilisti, e qui torniamo al sottotitolo del post: è credenza popolare, infatti, che Francesca fosse dotata anche del dono dell'ubiquità, la facoltà di trovarsi contemporaneamente in più luoghi nello stesso istante. Quindi, quando ispirandosi alla tradizionale benedizione degli animali si pensò di benedire anche i moderni mezzi di trasporto rapido (automobili, motociclette, biciclette), si pensò a lei come protettrice di tali mezzi.
Sulla presunta rapidità di tali mezzi avremmo ultimamente molto da ridire :-D
Francesca Romana insegnò alle sue suore la preparazione di uno speciale unguento, che usava per sanare malati e feriti; unguento che viene ancora oggi preparato nello stesso recipiente adoperato da lei più di cinque secoli fa. Il 9 marzo di ogni anno le Oblate aprono le porte del loro monastero, sulla Via del Mare, a chiunque voglia visitarne l'oratorio, il chiostro e le sale di preghiera.

Fonti: Antonio Borrelli e Avvenire


Cenni sulla chiesa di Santa Francesca Romana:


La chiesa di Santa Francesca Romana fu costruita nel IX° secolo su un precedente oratorio e in seguito ampliata nella seconda metà del X° secolo, quando prese il nome di S. Maria Nova, per distinguersi dalla chiesa di S. Maria Antiqua già presente nell'area del Foro Romano.



Dal XV° secolo fu dedicata a S. Francesca Romana e venne rinnovata in stile barocco nel 1600, durante il pontificato di Paolo V°. Il campanile, del XIII° secolo, è in stile romanico a cinque ordini.



La pianta interna è ad unica navata con cappelle laterali e soffitto ligneo a cassettoni intagliati e dorati. Sotto il transetto è disposta la cripta con la tomba della santa e un medaglione marmoreo, di scuola berniniana, raffigurante Santa Francesca e l'angelo.



Fonti ROMECity e Le Chiese di Roma, Liber edizioni.

RIONI E QUARTIERI DI ROMA: LA GARBATELLA

Una delle "funzioni in divenire" di questo blog è farvi “passeggiare” per i rioni di Roma ma, invece che iniziare dal Rione I - Monti (il più famoso ed esteso), inizio con l'ultimo, quello che oramai è considerato il Rione XXIII° di Roma, perché proprio il 18 Febbraio si sono festeggiati i primi 87 anni di uno dei quartieri più popolari, caratteristici, affascinanti ed architettonicamente (forse al pari del solo Quartiere Coppedè) più importanti di Roma: la Garbatella.
Fondato nel 1920 sui colli che dominano la basilica di San Paolo Fuori le Mura, secondo l’immancabile leggenda romana prenderebbe il nome dall'appellativo dato alla proprietaria di un'osteria o, secondo un'ipotesi più scientifica, dal tipo di coltivazione della vite ("a barbata" o "a garbata", cioè “appoggiando” le viti ad alberi di acero o olmo) in uso su detti colli.
La Garbatella nasce nel 1920 come quartiere popolare destinato ad ospitare gli operai della prevista “zona industriale” dell’Ostiense, ed è caratterizzata da villini e palazzine divisi in lotti e strutturati, almeno nel nucleo storico, in tre piani al massimo, con grande cura per i dettagli e con ampi spazi verdi interni (piazze, cortili e giardini) che dovevano fungere da punto di ritrovo per la popolazione. Le prime costruzioni sono circondate da terreni adibiti ad orto, e vi è anche, da parte dei costruttori e dei progettisti, una particolare cura nello scegliere le piante più pregiate da inserire nei giardini; in seguito questa caratteristica si perderà e si favoriranno costruzioni a carattere condominiale, fino ad arrivare all’estrema espressione dei quattro “Alberghi” di Piazza Michele da Carbonara, di cui parlerò in seguito. Già dal 1870 Roma visse una fase di grande sviluppo edilizio: in particolare si prevedeva di connettere la zona sud della capitale al lido di Ostia tramite un canale navigabile parallelo al Tevere, che non fu però mai scavato, e che avrebbe dovuto fornire Roma di un porto commerciale praticamente nel centro della città, nei pressi dell'odierna zona del Gazometro; nella zona a ridosso del canale avrebbero dovuto sorgere una serie di lotti abitativi destinati ad ospitare i futuri lavoratori portuali. Il re Vittorio Emanuele III° posò la prima pietra a Piazza Benedetto Brin, il 18 febbraio 1920 mentre il promotore dell'opera di edificazione fu l'Ente per lo Sviluppo Marittimo e Industriale.


La posa della prima pietra della Garbatella, in Piazza Benedetto Brin, ad opera del Re Vittorio Emanuele III

Prima dell’inizio dei lavori in Piazza Brin, vaste proprietà della zona erano concentrate nelle mani di poche facoltose famiglie, che occupavano casali e ville. Il territorio era ricoperto da numerosi canneti, orti ed aree tenute a pascolo, affittate a pastori che praticavano la transumanza. Nel 1908 era sorto, su Via delle Sette Chiese, un grosso edificio dove una "Società del cacio e del pecorino" raccoglieva dai pastori il latte, lo lavorava e faceva stagionare le nere forme di pecorino romano. Il territorio era quindi semidisabitato ma si animava quando si svolgevano i pellegrinaggi delle Sette Chiese, una vera e propria processione che aveva nella "chiesoletta", la cappella dedicata ai santi contadini Isidoro e Eurosia, una delle tappe d'obbligo: nel luogo ove sorse la chiesetta, restaurata agli inizi dei 1800 dai Valadier, c'era stato nel 1575 l'incontro tra S. Filippo Neri, ideatore dei pellegrinaggio, e S.Carlo Borromeo.

La "Chiesolella", dedicata ai Santi Isidoro ed Eurosia, lungo Via delle Sette Chiese

Nel 1920 all’Ostiense erano state impiantate le officine del gas, i mercati generali, oleifici e, lungo le rive del fiume, mulini e concerie, una grande vetreria, officine meccaniche e molti magazzini. La nuova borgata (che prevedeva 190 alloggi distribuiti in 40 palazzine) nasceva come insediamento operaio a ridosso della zona industriale ma anche come borgo marinaro al servizio di un porto fluviale rimasto però a livello di progetto. Il 18 febbraio di 79 anni fa la nascente borgata non aveva ancora un nome ufficiale: furono proposti i nomi “Concordia”, per richiamare l'auspicio di una pace sociale molto vacillante in quel periodo, o “Remuria”, per via di una leggenda secondo la quale Remo, in opposizione a Romolo, avrebbe voluto costruire proprio qui la sua città (e non sull'Aventino come vuole la tradizione), ma prevalse in via ufficiale, anche se solo alla metà degli anni '30, il nome che si era già popolarmente imposto: Garbatella.
Il nuovo quartiere sorse su di un'area, come detto, allora semidisabitata e coperta da vigne e pascoli, la cui unica costruzione degna di menzione poteva dirsi la Basilica di San Paolo fuori le Mura, una delle basiliche maggiori di Roma, collegata alla Via Appia Antica dalla Via delle Sette Chiese, che partiva proprio da San Paolo Fuori le Mura e della quale si servivano i pellegrini diretti al Santuario del Divino Amore, lungo la Via Ardeatina; proprio su uno sperone roccioso dei Colli di San Paolo (questo il nome originario della zona), sul lato sinistro dell'odierna via Ostiense, probabilmente proprio in Vicolo della Garbatella, sorgeva l'osteria della celebre ostessa, una donna di nome Carlotta (o Maria, secondo recenti studi), talmente benvoluta dai viaggiatori che prendevano alloggio presso la sua locanda, da meritare il nome di Garbata Ostella, definizione contratta poi in “Garbatella”. Le ragioni del nome risalgono alla sua caritatevole attitudine verso i bisognosi, anche se non manca chi ha voluto fare allusioni sui favori che, si ritiene, l’ostessa fosse abituata a concedere ai viaggiatori (forse anche per questo lo stucco sulla facciata di un palazzo di Piazza Geremia Bonomelli la ritrae con un seno scoperto ?).


L'effige dell'"ostessa garbata" (da cui il nome Garbatella ?)

Nel giardino pubblico che sorge sull’ex vigna Serafini si trova l'ingresso delle catacombe di Commodilla, con una piccola basilica ipogea della fine del IV secolo, un cimitero dipinto con scene bibliche ed effigi di martiri.

Pitture murali nella Catacomba di Comodilla

Monumenti, artistici ed architettonici. degni di rilievo o cusiosità, alla Garbatella, sono la Fontana di Carlotta con la adiacente scalinata (detta “degli innamorati”),



La Fontanella di Carlotta e la Scala degli Innamorati

il Palladium (che era un tempo il cinema rionale e oggi, dopo essere stato anche discoteca di tendenza, dinamico centro culturale) e, in epoca più recente, proprio ai limiti con l’Ostiense, l’Air Terminal che, in occasione dei Campionati mondiali di calcio del 1990 doveva unire l’aereoporto di Fiumicino alla città (ora il terminal non è più attivo e praticamente abbandonato, anche se nel 2008 dovrebbe aver inizio un’opera di riqualificazione della struttura con la creazione di un teatro e con il trasferimento, in esso, di alcuni uffici comunali).


L'Air terminal Ostiense

Un’altra struttura che, per un certo verso, può essere definita un “monumento storico” è l’orologio della torre dell’”Albergo rosso”, che ha per anni segnato le ore 11 e 25: cioè l’ora di inizio del bombardamento che il 7 marzo del ’44 colpì l’intera zona e che rase al suolo gran parte del quartiere, lasciando a terra oltre cinquanta morti. Quelle lancette ferme sulle 11,25 per oltre mezzo secolo sono state forse il miglior monumento di Roma contro la guerra.


Il "Lotto 42" - L'Albergo "Rosso"

Fin dai primi anni ’20 alle case a schiera si preferirono villini unifamiliari o con due o tre appartamenti al massimo, per la necessità di costruire abitazioni nel più breve tempo possibile. Considerando che i terreni della Garbatella erano fuori del Piano Regolatore del 1908, quindi di basso valore commerciale (almeno a quel tempo), si cercò di qualificare il quartiere anche tramite la costruzione di piazze, spazi verdi (comuni o privati), scuole, mercati e chiese. A tal proposito questa era la teoria di Raynold Unwin, l’urbanista inglese cui si ispirarono i progettisti italiani della Garbatella: "Suggerisco che la forma ideale della città alla quale essa dovrebbe tendere, consista in un nucleo centrale, circondato da sobborghi, ognuno dei quali raggruppato intorno ad un centro sussidiario che rappresenti la vita comune suburbana dei distretto; il sobborgo, a sua volta, sarà costituito da gruppi di abitazioni, officine, o altro, con qualche attività cooperativa collegata con gli edifici e i proprietari delle abitazioni o con gli svaghi collettivi negli spazi pubblici, nei campi di gioco e così via. Per potenziare questo sviluppo ideale della città, ogni singolo sobborgo dovrebbe essere fornito, prima di tutto, di un opportuno centro intorno al quale dovrebbero essere situati gli edifici municipali o amministrativi locali, i luoghi di culto e le istituzioni educative, ricreative e sociali. Sarebbe logico raggruppare le industrie e le attrezzature ferroviarie in collegamento con canali e fiumi, ove esistano. Una simile zona industriale dovrebbe essere strettamente collegata, con strade di traffico dirette a comodi mezzi di trasporto, con i diversi quartieri residenziali".
In verità l'intero quartiere, con le fontane, le palazzine, i balconi, i villini, gli stucchi e gli spazi verdi, può essere considerato un grande monumento a cielo aperto, tanto che, da sempre, fa da sfondo a film, fiction e telefilm..: il quartiere, infatti, è sempre stato caro a Nanni Moretti (che vi ambientò alcune scene di “Bianca” ed una parte del primo episodio del film “Caro diario”, precisamente “In vespa”, descrivendo la Garbatella come “il quartiere di Roma che più mi piace”; alla Garbatella sono state recentemente girate le fiction di successo “Caro Maestro” e “I Cesaroni”;


lo stesso Pasolini ambientò in questo quartiere molte scene del romanzo “Una vita violenta”, in cui il protagonista uccide in un lotto della Garbatella un suo rivale chiamato "lo Shangaino", poiché proveniente dalla confinante borgata di "Shangai", ora Tor Marancia).
La struttura architettonica ed urbanistica del quartiere fu inizialmente improntata al modello inglese delle “città giardino”, popolate da operai e comprendenti ampi e numerosi spazi verdi coltivabili, tali da fornire ai lavoratori residenti una preziosa, e ulteriore, fonte di sussistenza. Alcuni dei lotti originari vennero demoliti negli ultimi decenni del secolo scorso ma nei lotti più antichi, nei pressi di piazza Benedetto Brin, vero e proprio cuore della Garbatella, si può ancora ben vedere come gli spazi dedicati al verde (giardino o orto che fosse) erano proporzionalmente paragonabili a quelli abitativi; questo, forse, per permettere un più ottimale e rapido ambientamento dei lavoratori agricoli provenienti dall’Agro Pontino e destinati a popolare il nuovo quartiere: un espediente per farli sentire un po’ più “a casa propria” ed evitare lo chock dovuto al trasferimento “in città”.
Lo stile architettonico dei primi lotti fu denominato “Barocchetto” dai suoi creatori Giovannoni e Sabbatini, cui si aggiunsero in seguito Costantini, Piacentini, De Renzi, e Nori; infatti di stile “baroccheggiante” sono i profili sagomati, le figure di animali, fiori e mascheroni riscontrabili nei fregi, sia pure in stucco anziché in marmo come negli edifici gentilizi. L'avvento del Fascismo stravolse però la pianificazione urbanistica del quartiere, in quanto il rapporto "verde/edificato" calò sensibilmente e cominciarono ad essere costruite abitazioni più simili ai moderni condomìni che ai precedenti villini; anche l'idea del porto fluviale venne definitivamente abbandonata. Restò comunque ferma l'intenzione di costruire, oltre agli spazi abitativi privati, spazi pubblici come stenditoi o asili nido. Si cominciarono a costruire palazzi più grandi ed alti per ospitare una sempre crescente popolazione.
La differenza con i palazzetti sorti all’inizio dal 1920 con quelli edificati dal 1923 in poi, si può facilmente riscontrare nei quattro lotti chiamati Alberghi ("Bianco", "Giallo", il "Terzo Albergo" e "Rosso – lotto 42") nei pressi di piazza Eugenio Biffi, notevolmente differenti dal punto di vista strutturale ed estetico. Malgrado questo giro di timone progettuale la Garbatella può comunque essere definito, insieme forse alla zona di Monteverde Vecchio, l’unico quartiere di Roma a misura d’uomo. Proprio da questo quartiere, appunto tra i più popolari (anche se trovare un appartamento qui è oramai un’impresa) iniziò il giro delle visite ufficiali Papa Giovanni Paolo II° all’inizio del suo pontificato, sul finire degli anni ’70.
Gli “Alberghi” appena menzionati sono quattro palazzoni disegnati alla fine degli anni ’20 da Innocenzo Sabbatini ed edificati nella Piazza Michele da Carbonara. Tre di loro, il “bianco” il “giallo” e il “terzo albergo”, s’incastrano con forme ad "Y" mentre il quarto, dipinto di rosso, sembra una bottiglia rovesciata. Quando furono costruiti non mancarono elogi da parte dei giornali del tempo; nel marzo del 1928 il Messaggero recita : “Frutto di sperimentazione progettuale che rimanda a suggestioni futuriste.. questi edifici si notano per una migliore pratica costruttiva ed una perfetta utilizzazione degli spazi..” In realtà erano dei veri e propri dormitori pubblici, con i servizi in comune, destinati a concentrare gli sgomberati, gli espulsi dal centro storico, assieme a sorvegliati di polizia o ex confinati vittime del Tribunale Speciale

La piantina delle quattro strutture degli "Alberghi"

Gli Alberghi, intorno ai quali sorsero trattorie e palestre di boxe in abbondanza, non furono mai un posto tranquillo per fascisti e loro simpatizzanti. Proprio da queste zone nei giorni delle bombe e della fame, partivano gli assalti ai treni alla stazione Ostiense (inaugurata il 26/7/1940 e fatta espressamente costruire da Mussolini per accogliere Hitler in visita a Roma) e furono in tanti a prendere le armi rischiando o sacrificando la propria vita. Molti dei loro nomi li ritroviamo oggi nelle targhe delle strade di Roma a loro dedicate quali martiri della Resistenza.
La Garbatella, sul finire degli anni ’20 è un vero e proprio territorio di sperimentazione urbanistica, in cui vengono applicate varie soluzioni: sono infatti presenti sia la "casa rapida", essenziale, che i villini palladiani, le case "minime" e gli alberghi suburbani. Le varie tipologie edili evidenziano il diverso ruolo svolto dai vari interventi. La "prima" Garbatella è legata ad un'idea di città giardino tutta italiana; ogni inquilino ha intorno all'alloggio un pezzo di terreno adibito ad orto e particolare cura è dedicata alla scelta di piante pregiate nell'ornamento dei giardini. Con le realizzazioni successive la” casa rapida” non prevede più lotti frazionati ma spazi e attrezzature collettive. La scelta di edificare "alberghi" suburbani viene adottata in seguito al fallimento della politica della casa rapida. Appena si evidenziò la forte incidenza dei costi di costruzione, la tipologia dei villino si trasformò in palazzina che, a sua volta, fu la soluzione intermedia tra il villino e l'edificio a "blocco”, un edificio architettonicamente elegante e di veloce realizzazione, comprendente in sé un modico numero di appartamenti e rispondente, meglio del villino, alle esigenze economiche e di sviluppo della città.
Nel 1920 le case generalmente sono a due piani, con piccolo spazio verde individuale. Gli alloggi sono costituiti da tre o sei vani e senza bagno. Sono delle residenze molto semplici, costruite con materiali economici, ma che hanno una certa solidità. Il sistema costruttivo adottato è quello usuale all'epoca a Roma, con muratura mista di pietra, tufo, mattoni, pavimenti in piastrelle di cemento e, sui tetti, tegole alla marsigliese o alla romana, scalini e soglie in cemento. Nel 1923 inizia la costruzione delle "case rapide" e nel 1925 sorge, intorno a piazza Masdea e via Magnaghi, il quartiere per gli sfrattati: le case, scarne ed essenziali, sono caratterizzate da ampi spazi comuni e servizi come stenditoi, lavatoi, spazi gioco, giardini. Nel 1926 l'architetto Marconi progetta le case di tipo semieconomico. Questo tipo diedificio, indirizzato ad un ceto sociale diverso da quello dei villini, è composto generalmente da tre fabbricati uniti da arcate di allacciamento e disposti intorno ad un cortile che ancora oggi è caratterizzato da piante e fiori. Queste costruzioni, sono quelle a più alta densità abitativa, dopo gli alberghi: sono alte quattro piani e sono costituite da quattro alloggi per piano. Al piano terra ampie arcate permettono l'accesso al lotto. Tra il 1925 ed il 1927 fu costruito il quartiere per sbaraccati, costituito da oltre 500 alloggi. La novità di questo "quartiere" è costituita dall'esistenza di un progetto generale dei lotti che dà un senso unitario a tutta l'area. Nel 1929-30 si costruiscono edifici intorno alla piazza Bartolomeo Romano, con caratteristiche completamente differenti dalle precedenti: gli edifici hanno volumi notevoli e piante più articolate. Fanno parte di queste costruzioni i Bagni Pubblici ed il Teatro, servizi ormai essenziali per le dimensioni raggiunte dal quartiere. Principale artefice di questi progetti è l'architetto Sabbatini. Il Cinema Teatro Garbatella, oggi Palladium, è un dinamico insieme di elementi strutturali che sostengono le gallerie curvilinee ed elevano la cupola di copertura".


Il Palladium

Progettati completamente, come detto, da Innocenzo Sabbatini tra il 1926 ed il 1929, e costruiti intorno a piazza Michele da Carbonara, gli "alberghi" dovevano servire a dare ricovero agli sfollati dei centro storico in seguito alla politica degli sventramenti della zona del Colosseo, del Teatro di Marcello e dell’attuale Via dei Fori Imperiali. Sabbatini fu libero di progettarli a suo piacimento e senza controlli superiori; essi occupano tre lotti triangolari mentre il quarto è concepito a forma di bottiglia per ospitare la sala da pranzo comune. Questi "alberghi", che in buona sostanza non sono altro che dei dormitori pubblici, hanno i servizi sociali ubicati al piano terra: depositi, cucine, refettori, asili per bambini, ambulatori. In particolare nell'Albergo rosso trovano posto la chiesa e le scuole elementari, mentre nell'Albergo bianco è situata la Maternità. Le stanze ai piani superiori possono ospitare o persone singole, divise per sesso, o nuclei familiari. Il "Messaggero" del 29 Marzo 1928 riconosce in questa opera "una migliore pratica costruttiva ed una migliore utilizzazione degli spazi dovuta alla semplice scelta tipologica del corridoio con stanze a destra e sinistra”. Alla popolazione allontanata dalle proprie attività e dalla propria residenza non viene concessa altra alternativa che quella di vivere o in una "casa rapida" o in un dormitorio pubblico. Dopo il 1935 cessa la sperimentazione sull'abitazione popolare. L'intervento definitivo sulla "borgata giardino” avviene con la costruzione della chiesa San Franceso Saverio e la Scuola Cesare Battisti (sfondo di mille film e riprese televisive in tempi recenti). Sono presenti, in questi ultimi due edifici, i caratteri dell'"architettura di Stato", con le aquile littorie intorno alla bella torre traforata della scuola ed il portico, di forte richiamo alla romanità, che fa da ingresso a via Magnaghi.




La Scuola Cesare Battisti con le Aquile Littorie ed il campanile traforato


Nel 1931 la Garbatella venne visitata nientemeno che dal Mahatma Gandhi. 

Il 13 dicembre, in visita a Roma, fu suo desiderio visitare il popolo romano nel neonato quartiere.
Certo fa ancora oggi impressione rivedere la fotografia in cui si vede il Mahatma scalzo e coperto dalla sua abituale tunica contornato da ufficiali e funzionari fascisti coperti da pesanti pastrani.



Immagine

gandhi

A seguire alcune foto, d'epoca e di oggi, della Garbatella e dei dintorni:




Esterni ed interno del Palladium





Piazza Benedetto Brin


La vicina Via Cristoforo Colombo, che unisce le Terme di Caracalla al mare di Ostia



05 febbraio 2007

LE FESTE ROMANE: IL CARNEVALE

E veniamo finalmente ad una delle feste romane più pazze, sentite e divertenti: il Carnevale, dalle origini millenarie. Infatti, già ai tempi dell'antica Roma si festeggiavano i “Saturnalia”, caratterizzati dalla licenza accordata agli schiavi di poter prendere il posto, anche burlandosene, del proprio padrone, ubriacarsi, stare alla sua stessa tavola, senza poter essere ripresi per un comportamento che in altre occasioni avrebbe meritato frustate o altre punizioni corporali e, nei casi ancora più gravi, la morte. Il capovolgimento gerarchico prevedeva che i padroni si scambiassero di posto con i propri schiavi, li servissero a tavola e che non potessero cibarsi essi stessi finché gli schiavi non avessero mangiato e bevuto a loro piacimento. Senza dubbio nella settimana dei Saturnalia Roma era in preda a caos e confusione, come raccontano Seneca e Plinio il Giovane: quest'ultimo ci narra che durante i Saturnalia si rifugiava in una dimora appartata, lontana dalla sfrenatezza e dagli schiamazzi di quei giorni. Tipico della festa era anche lo scambio dei doni, per lo più candele e statuette in terracotta, in qualche modo analogo a quanto avviene nel nostro Natale.


I Saturnalia

Nel corso del X° secolo, forse per allietare gli animi del popolino ed “ammorbidirli” in previsione dell’austero imminente periodo di Quaresima, vennero instituite verso la fine di Gennaio, delle manifestazioni di svago, in forma di giochi e tornei cavallereschi, in seguito tramutatisi in vere e proprie feste di piazza, anche mascherate.
Il Belli così presenta la Quaresima in un suo sonetto del 1831:

L’editto pe’ la cuaresima

Er curato a la messa ha lletto er fojjo
Che cc’è l’indurto, e ccià spiegato tutto:
A ppranzo se connissce co’ lo strutto,
Ma la sera però ssempre coll’ojjo.

Carne de porco mai: sai che cordojjo
Sti jotti (1) de salame e dde presciutto!
Pe’ mme, ciò un zanguinaccio, ma lo bbutto;
Ché ïo nun vojjo scrupolo, nun vojjo.

La matina se pô pe’ ccolazzione
Pijjà un deto de vino e un po’ de pane,
Da non guastà er diggiuno in concrusione.

Poi disce a li cristiani e a le cristiane
D’abbandonà er peccato, e ffa’ orazzione
Sin che nun s’arissciojje le campane.

24 novembre 1831

(1) Ghiotti

Quindi fino alla fine del 1.300 il Carnevale consisteva in una grande festa pubblica, che terminava il Martedì Grasso con l’avvento della Quaresima: il termine Carnevale deriva infatti da "carnem levare", ‘togliere la carne’, con riferimento al giorno precedente la Quaresima, in cui (almeno i più ricchi, che potevano permettersela) sospendevano il consumo della carne.
La festa doveva rigorosamente essere indetta dal Papa con un apposito editto, ma poteva capitare, soprattutto in occasione di Anni Santi e Giubilei (quando veniva sostituita da celebrazioni liturgiche) oppure in caso di pestilenze, sommosse popolari o morte del papa stesso, che la festa non venisse celebrata, con gran delusione del popolo romano intero. Anche in vista di inasprimenti di tasse o inasprimento di provvedimenti disciplinari, ogni scusa era valida per sospenderne i festeggiamenti: ad esempio, nel 1837, il papa, con la “scusa” di un’epidemia di peste, ma in realtà per paura di sommosse popolari, non ordinò l’inizio del Carnevale. Il Belli riporta in altri due suoi sonetti il malcontento suo e del popolo:

Er Carnovale der ‘37

Oggi, ar fine, per ordine papale,
Cor pretesto (1) e la scusa del collèra,
ma ppe’ un’antra raggione un po’ ppiù vvera (2),
er Governo ha inibbito er Carnovale.

Dunque nun c’era d’arifrètte (3) ar male
De chi vvènne le mmaschere de scera?
Dunque nun c’era da penza’, nnun c’era,
all’abbiti d’affitto, eh Sòr Piviale!

E nnoantri che ffamo li confetti
E ttan’ e ttanti che ccampeno un mese
Còr trafico de lochi e mmoccoletti?

Ah! Cqui, ppe lo scacàrcio (4) de ‘sto Santo
Senza viggijja né llàmpene accese,
Roma, pe’ ddio, s’ha d’aridusce un pianto.

20 Gennaio 1837

1 pretesto
2 i timori del papa
3 riflettere sui danni provocati a chi “viveva” con i proventi degli oggetti carnevaleschi
4 timidezza, timore, del papa


Er primo giorno de Quaresima

Finarmente è spicciato (1) Carnovale,
Corze, bballi, commedie, oggi ariduno:
so’ ttornate le scennere e er diggiuno:
mo’ de prediche è tempo e de caviale.

De tanti sscialacori oggi gnisuno
Po’ ssoverchia’ chi nun ha uperto l’ale:
er zavio e ‘r matto adesso è ttal e cquale:
oss’è goduto o nno’, ssemo tutt’uno.

Addio ammascherate e carrettelle,
pranzi, cene, marenne e colazione,
fiori, sbruffi, confetti e carammelle.

Er Carnovale è mmorto e sseppellito:
li mòccoli hanno chiusa la funzione:
nun ze ne parla ppiù: tutt’è ffinito.

17 Febbraio 1847

(1) terminato


Il Carnevale aveva una durata di undici giorni (ma le corse e le feste in maschera, che iniziavano il Sabato, venivano sospese il Venerdì e la Domenica, quindi il tutto si riduceva, effettivamente, ad otto giorni). La caratteristica che lo rendeva una festa “scatenata” era il fatto che, almeno in questo breve periodo, era consentita la trasgressione alle rigide disposizioni di ordine pubblico, la maggior parte di origine religiosa, che vigevano a Roma in quei secoli e che i tutori dell’ordine regolavano rigorosamente. Si pensi che durante la Quaresima perfino le rappresentazioni teatrali venivano sospese e nei mercati non potevano esibirsi i saltimbanchi. Fino al XIV° secolo la festa si svolgeva soprattutto in Piazza Navona e sul Monte Testaccio: in Piazza Navona si svolgevano tornei prettamente medievali (esibizioni di cavalieri che, cavalcando a pelle, dovevano colpire un bersaglio rotante o infilare con la loro lancia un anello pendente da una trave) mentre a Testaccio si svolgevano delle tauromachie e la triviale Ruzzica de li Porci: dalla cima della collina venivano lanciati in discesa dei carretti carichi di maiali. Rovesciandosi o infrangendosi i carretti contro alberi o rocce i maiali venivano sbalzati fuori ed erano contesi dalla gran folla che si era radunata sulle pendici.



Tauromachia sul Monte Testaccio

Il primo carnevale romano “moderno”, che ha poi dato origine a tutti i principali carnevali del mondo, con le sue maschere, i carri ed i festeggiamenti in strada, e che nel Rinascimento oscurò per fama anche il famoso Carnevale di Venezia, fu introdotto nel corso del Quattrocento dal papa veneziano Paolo II° il quale, per inaugurare il suo palazzo (Palazzo Venezia, a ridosso della Chiesa di San Marco, protettore di Venezia), lo trasferì in Via Lata, l’attuale Via del Corso che, in effetti, dal ‘600 al ‘900 fu il vero asse principale della vita sociale ed economica di Roma: la mattina vi si incontravano mercanti, uomini d’affari e politici; il pomeriggio, invece, si trasformava in luogo d’incontro ed era percorsa da entrambi i lati da una fila interminabile di carrozze gentilizie. Due curiosità su questa strada: intanto bisogna dire che altro non era, e in pratica lo è tuttora, se non il tratto “urbano” della Via Flaminia; l’altra curiosità è che attualmente la Via Lata non è altro che un vicoletto (in cui è stata successivamente spostata la Fontanella del Facchino) che collega Via del Corso con Piazza del Collegio Romano. Durante i festeggiamenti, che attiravano migliaia di persone anche da fuori Roma, tanto che i balconi affaccianti su Via del Corso venivano affittati per laute somme era lecito circolare mascherati, ma, sempre per la sicurezza dell’ordine pubblico, soltanto fino al tramonto era possibile coprirsi il viso con una maschera.


Sonne - Carnevale a Via del Corso

In questo periodo, dominato da canti, balli, lanci di “confetti” (pallottoline di gesso colorate) e di “sbruffi” (gli attuali coriandoli), mascherate, scherzi e da sontuosi banchetti pubblici, facevano affari d’oro i venditori di maschere di cera e cartapesta, che affollavano le strade limitrofe il Corso, e perfino, cardinali, preti e monache potevano parteciparvi, anche se lo facevano solo nell’ambito dei loro relativi conventi. Le maschere più in voga, caratterizzate da stracci e pezze multicolori, erano quella del notabile, del mendicante, della popolana (generalmente erano ovviamente gli uomini ad agghindarsi da popolana); il ricco si vestiva da povero ed il povero… tentava di “spacciarsi” per ricco. Il tutto perfezionato con pettinature stravaganti.
Altre caratteristiche del Carnevale Romano erano la Corsa dei Ragazzini, quella degli Asini, quella dei Bufali, la sfilata di carri stracolmi di gente mascherata e urlante, e le battaglie con arance, confetti, mele e rape, che poi Papa Sisto V° proibì per la loro pericolosità: decine erano, infatti, ogni volta i feriti, anche gravi. C’erano poi la Corsa degli Zoppi, dei Deformi, dei Nani, degli Ebrei anziani e quella degli Storpi (tutte, per la verità, di dubbio gusto), durante le quali i “competitori” erano oggetto di lanci di oggetti vari e di epiteti di facile interpretazione da parte del popolino spettatore; queste corse, in particolare quella degli Ebrei, vennero dopo breve tempo sostituite da Papa Clemente IX°, nel 1667, con la Corsa dei Cavalli Bàrberi, che, in ognuna delle giornate del Carnevale, si svolgeva prima del tramonto in Via del Corso. Il prezzo che gli Ebrei dovettero pagare consistette nell’accollarsi gran parte delle spese del Carnevale e nel doversi, per giunta, sottomettere ad una cerimonia farsesca nel corso della quale il Rabbino Capo si doveva inginocchiare in Campidoglio davanti al Senatore ed ai Conservatori pronunciando un discorso di contrizione al quale il Senatore rispondeva con le parole: “Andate ! Per quest’anno vi soffriamo”, rifilando poi un calcio nel sedere al Rabbino inginocchiato.
La “mossa”, che liberava il galoppo dei cavalli, senza fantino, avveniva in Piazza del Popolo e l’arrivo era in Piazza Venezia, proprio sotto il balcone del palazzo del Papa (balcone che qualche secolo dopo diverrà famoso per altri “mussoliniani” motivi).


G.F. Perry - La mossa dei Bàrberi


Ancora la mossa dei Bàrberi

Tutta Via del Corso era invasa da migliaia di popolani che incitavano, stando in bilico su un piccolo marciapiede a gradino, o rincorrevano i cavalli al galoppo: inutile dire che questi comportamenti provocavano ogni giorno feriti o addirittura morti. Proprio in Piazza Venezia, ben più piccola di quanto non sia ora, venivano sistemati dei teli per “chiudere” il percorso ai cavalli, che venivano presi “al volo” da stallieri, soprannominati “barbareschi”.


Bartolomeo Pinelli - La "Ripresa" dei Bàrberi


Bartolomeo Pinelli - Il Carnovale de Roma

Il proprietario del cavallo vincitore riceveva in premio una drappo di stoffa preziosa ricamata, “gentilmente offerta” dalla comunità ebraica. La cavalcata dei Bàrberi venne sospesa da Vittorio Emanuele II° (presente al fatto) nel 1874 quando un giovane, che distrattamente attraversò Via del Corso durante il sopraggiungere dei cavalli, venne travolto ed ucciso. I festeggiamenti del Carnevale Romano si protrassero, invece, fino al 1896.
Un’altra curiosità di questa festa è che, nel corso dei secoli, vi presero parte, con grande entusiasmo e coinvolgimento, personaggi famosi: Standhal (che definì Via del Corso “la strada più bella dell’universo”), Goldoni (che, nel 1753, la racconta così: “… Non è possibile farsi un’idea del brio e della magnificenza di questi otto giorni… una folla di maschere che corre e canta… gettando confetti a staia che loro vengono restituiti… di modo che la sera si cammina sopra farina inzuccherata…”), Casanova, Goethe, Dickens, Paganini e Rossini (questi ultimi due vi parteciparono vestiti da donna nel 1822), per finire con Massimo D’Azeglio e, come detto, Vittorio Emanuele II°.
Il Carnevale terminava con un vero e proprio “funerale” (in origine, alla conclusione dei Saturnalia, si dava fuoco ad un fantoccio di paglia e cenci per esorcizzare i mali dell’anno trascorso e per rendere benigni gli eventi futuri); particolarmente romantica era poi la Corsa dei Lumini (chiamati dai romani “Li Moccoletti”): migliaia di lumini e candele venivano accesi sui davanzali delle finestre dei palazzi di Via del Corso ed altri venivano portati in corsa dai partecipanti, che si proteggevano dalla cera fusa circondando la candela con un foglio di carta colorata o grezza. Durante la corsa i popolani cercavano di spegnersi l’un l’altro il Moccoletto.


Ippolito Caffi - I Moccoletti al Corso

In fin dei conti il Carnevale era considerato dal popolo, oppresso dai duri lavori e dagli stenti quotidiani, una vera e propria valvola di sfogo, tanto che ogni eventuale impedimento al suo svolgimento era malvisto: addirittura la morte di Papa Leone XII° (già di per se malvisto), avvenuta durante il Carnevale del 1829, venne malamente commentata da Pasquino:


Tre dispetti ci festi, o Padre Santo:
accettare il papato, viver tanto
morir di Carneval per esser pianto”.