30 maggio 2007

CUCINA ROMANA: I MARITOZZI DI QUARESIMA

A Roma (ma è ancora così in quasi tutte le zone d’Italia, dalla Liguria alla Sicilia), in tempo di Quaresima, si usava mangiare "er maritozzo santo", che il primo venerdì di marzo veniva donato alle fidanzate ed in cui potevano essere celati anellini o piccoli monili “in vista” del matrimonio. Giggi Zanazzo, nella sua opera "USI, COSTUMI E PREGIUDIZI DEL POPOLO DI ROMA" così descrive la "pratica" della donazione del maritozzo:

173. — Li "Maritòzzi"1.
Una mucchia d’anni fa, dda noi, s’accostumava, in tempo de Quaresima, er primo vennardì de marzo, de portà’ a rigalà’ er maritózzo a l’innammorata. ’Sto maritózzo però era trenta o quaranta vorte ppiù ggranne de quelli che sse magneno adésso; e dde sopre era tutto guarnito de zucchero a ricami. In der mezzo, presempio, c’ereno du’ cori intrecciati, o ddu’ mane che sse strignéveno; oppuramente un core trapassato da una frezza, eccetra, eccetra: come quelle che stanno su le lettere che sse scriveno l’innammorati. Drento ar maritòzzo, quarche vvorta, ce se metteveno insinenta un anello, o quarch’antro oggetto d’oro. Tra ll’antre cose che ricordeno ’sto custume, che oramai nun s’aùsa ppiù dda gnisun innammorato, ciavemo diversi ritornelli:
Uno, presempio, dice:

«Oggi ch’è ’r primo Vennardì dde Marzo2,
Se va a Ssan Pietro a ppija er maritòzzo;
Ché ccé lo pagherà ’r nostro regazzo».

E dde ’sti maritòzzi:
«Er primo è ppe’ li presciolósi;
Er sicónno pe’ li spósi;
Er terzo pe’ l’innamorati;
Er quarto pe’ li disperati».

«Stà zzitto, côre:
Stà zzitto; che tte vojo arigalàne
Na ciamméllétta e un maritòzzo a ccôre».

E infatti certi maritòzzi ereno fatti a fforma d’un côre.

1 Maritozzi: pani di forma romboidale, composti di farina, olio, zucchero e talvolta canditure o anaci o uve passe. Di questi si fa a Roma gran consumo in quaresima, nel qual tempo di digiuno si veggono pei caffè mangiarne giorno e sera coloro che in pari ore nulla avrebbero mangiato in tutto il resto dell’anno. Belli.
2 Infatti tutti i venerdì di marzo si andava a San Pietro a udire la predica, a far l’amore e a mangiar maritozzi.

I maritozzi, il cui curioso nome si ritiene sia un affettuoso screditante del termine "marito", erano all’epoca delle vere e proprie “pagnotte” dolci guarnite di uva passa, pinoli e frutta candita (ingredienti tipici, come vedremo in post successivi, della cucina ebraico-romanesca); quelli prodotti oggi da laboratori dolciari e pasticcerie sono molto più piccoli e più simili, come grandezza, ad un cornetto o ad una brioche, e sono quasi sempre spaccati a metà e riempiti con panna montata. La tradizione dei maritozzi risale al Medio Evo, ed erano appunto uno dei pochi alimenti permessi durante il periodo di digiuno quaresimale, durante il quale era escluso anche nei dolci l’uso di grassi e derivati animali (burro, latte, uova. Curioso è il fatto che gli stessi ecclesiasti abbiano sempre furbamente fatto di tutto per "bypassare" queste "direttive": ad esempio per anni si discusse se il cacao, importato dopo la scoperta dell'America, fosse da considerarsi un cibo "di grasso" o "di magro", quindi consentito o meno in periodo Quaresimale; la questione fu risolta nel corso del '600 dal cardinale Francesco Maria Brancaccio che, con un saggio di addirittura una settantina di pagine, dopo "studi meticolosi et approfonditi" stabilì per certo che il cioccolato fosse alimento di magro, non essendo di origine animale, e come tale permesso in periodo di Quaresima). Durante l’anno venivano preparati in forma di vera e propria pagnotta e guarniti in superficie soltanto da grani o “spennellate” di zucchero mentre nella versione quaresimale il maritozzo diventava più piccolo, e l’impasto si arricchiva di canditi, pinoli e uvetta.
Immancabile a Roma, a chiusura di una serata con gli amici e prima di andare a nanna, la visita "ar maritozzaro".

Ed ecco la Ricetta dei veri maritozzi romaneschi:
200 gr di farina,
50 gr di burro,
1 uovo,
20 gr di lievito di birra,
3 cucchiai di zucchero,
100 gr di uvetta lavata, ammollata e asciugata
1 cucchiaio di pinoli,
1 cucchiaio di buccia di arancia candita a pezzetti
Sale

Con la farina e il lievito di birra si prepara la pasta, aggiungendo l'uovo e il burro (non permessi in Quaresima). Si lavora energicamente e, dopo aver unito due cucchiai di zucchero, si mette a lievitare in luogo tiepido (va benissimo dentro il forno). Quando la pasta avrà raddoppiato il volume, incorporare l'uvetta, i pinoli ed i dadini di buccia d'arancia. Si dispone sulla piastra del forno poco unta (o su una teglia di silicone) la pasta, divisa in 10-12 pezzi ovoidali.

Qui in versione tradizionale, senza pinoli, uvetta e canditi.

Si lascia lievitare ancora un paio d'ore sulla placca in un luogo tiepido, quindi si inforna a più di 250 gradi per 6-7 minuti. Si tolgono dal forno quando sono morbidi ed appena dorati (attenzione a toglierli prima che si formi la crosta) e si spennellano, ancora caldi, con un cucchiaio di zucchero sciolto in pochissima acqua (in Sicilia si una la gomma arabica e granella di pistacchi), quindi si rimettono nel forno, caldo ma spento, per far indurire la glassa di zucchero.
Una volta freddi si possono anche spaccare per il lato lungo (soprattutto nella versione senza pinoli, canditi ed uvetta) e riempire di panna montata.



29 maggio 2007

UN ANGOLO DI PACE

Penso abbiate oramai capito quanto io sia un tipo strano e per questo mi sembrate pronti a leggere qualcosa su… un cimitero. Non un cimitero “qualunque” ma il Cimitero Acattolico di Roma. Visto che la Chiesa nel ‘600 e ‘700 vietava che i non cattolici (oltre che i suicidi, le prostitute ed i teatranti) venissero seppelliti in “territorio cristiano”, si dovettero creare nuove aree dove seppellire, rigorosamente di notte, tali corpi, appena fuori delle mura cittadine. Per questo motivo esistevano, al tempo, un cimitero degli attori (presso Porta Pinciana) ed uno degli Ebrei (nell’area in cui attualmente sorge il Roseto comunale, sul colle Aventino, di cui vi ho parlato pochi post più sotto). Il cimitero di cui vi voglio parlare accoglie "non cattolici" di ogni nazionalità: italiani (Gadda; Gramsci),

La semplice tomba di Gramsci

americani (Corso, poeta della Beat Generation; Simmons, scultore e pittore; Wetmore, scultore autore del meraviglioso “Angelo del dolore”),


russi,


cinesi, greci,


scandinavi

La tomba di Andersen

ma soprattutto tedeschi (il figlio di Goethe; l’architetto Semper) ed inglesi (Severn, pittore e console a Roma nonché amico di Keats, accanto al quale è sepolto;


Le lapidi delle tombe di Keats e Severn

Symmonds, poeta; Trelawny, autore ed amico di Shelley, cui è sepolto accanto)

Le lapidi di Shelley e Trelawny

di ogni periodo, dal 1738 ad oggi, anche se il cimitero venne “ufficialmente” aperto nel 1821.
Tra i curati vialetti, contornati di verdi siepi,




di pini e cipressi si possono ammirare le tombe di John Keats (1795 – 1821, morto a Roma di tubercolosi, il cui epitaffio recita: Questa tomba contiene i resti mortali di un GIOVANE POETA INGLESE, che sul suo letto di morte, nell’amarezza del suo cuore, per il potere maligno dei suoi nemici, desiderò che queste parole fossero incise sulla sua pietra tombale: Qui giace colui il cui nome fu scritto sull’acqua ed alla quale "risponde" una vicina lastra marmorea: "Keats! Se il tuo caro nome fu scritto sull'acqua, ogni goccia è caduta dal volto di chi ti piange"),

La targa dedicata a Keats

e Percy Bysshe Shelley (1792 – 1822) affondato con il suo vascello in acque toscane. La sua tomba è proprio all’ombra delle Mura Aureliane. Un particolare romantico, anche se un po' macabro, riguarda la sua morte: il suo corpo venne cremato a Viareggio ma il suo amico Trelawny “strappò” il cuore dell’amico alle fiamme e lo portò alla sua vedova, Mary (celeberrima autrice del romanzo Frankenstein), e con lei venne sepolto in terra inglese qualche anno dopo.
Ci sono diverse statue nel cimitero: la più bella è, senza dubbio, lo straziante “Angelo del Dolore”, sulla tomba di William Wetmore (1819-1895), che ne fu anche l’artefice. Il realismo e la straziata posa dell’angelo lasciamo senza parole.





Due immagini dell'Angelo del dolore sulla tomba di Wetmore

Il cimitero, che sorge tra la Porta San Paolo (anticamente chiamata Ostiensis, perché da lì partiva la strada che collega ancora oggi Roma ad Ostia), la Piramide di Caio Cestio, le Mura Aureliane ed il Monte Testaccio, in una zona che, fino a quasi la metà dell’‘800, faceva parte dell’Agro Romano, ora pieno centro. Il fatto che le tombe fossero in campagna aperta (non c’erano né mura né staccionate a proteggerle) e, quindi, facilmente profanabili da ubriachi o fanatici religiosi, spinse nel 1817 i diplomatici di Prussia, Russia e Ducato di Hannover a richiedere al Cardinal Consalvi, Segretario di Stato Vaticano, il permesso di recintare a proprie spese il cimitero. Pur essendo di parere contrario il cardinale concesse, dopo quattro anni e su sollecitazione inglese, il permesso e provvide alla recinzione dell'area a spese del Vaticano. Nel 1894 l’ambasciata di Germania acquistò ulteriori terreni ed il cimitero venne ampliato.
Alcuni monumenti storici circondano il cimitero e lo rendono ancora più unico al mondo: la Porta San Paolo, la Piramide di Caio Cestio, che altro non è se non un monumento sepolcrale del pretore ( = magistrato civile responsabile della Giustizia), tribuno della plebe ( = magistrato che patrocinava gli interessi della plebe) e settemviro degli Epuloni ( = sacerdote preposto all’organizzazione di banchetti dedicati agli Dei), Caio Cestio, vissuto nel I° secolo a.C.. La piramide venne costruita in 11 mesi ed abbellita con rivestimenti in lastre marmoree.


Vista della parte vecchia del cimitero acattolico delimitata dalla Piramide di Caio Cestio e dalle Mura Aureliane sulla destra; sulla sinistra si intravede la Porta San Paolo

Nel III° secolo venne inglobata, come al tempo usava, nelle Mura Aureliane e divenne, con la Porta San Paolo, parte integrante della cinta muraria difensiva di Roma. Volute dall’imperatore Aureliano per difendere la città dagli assalti dei barbari, le mura si sviluppavano per 19 km. ed erano dotate di torri a pianta quadrata ogni 30 metri circa e di numerose porte d’accesso, fiancheggiate da torri semicircolari. Tra due torri potevano aprirsi delle porte minori (posterulae). Con vari restauri hanno difeso la città fino al 1870 ed ancora oggi sono lì a rappresentare la grandezza di Roma. Il Monte Testaccio (Mons Testaceus = Monte dei Cocci) è una collina artificiale alta una trentina di metri e con una circonferenza di circa 1 km. Si è formato con gli ammassi delle anfore rotte che venivano scaricate in epoca romana (II° - IV° secolo d.C.) nel vicino porto cittadino, ora quasi totalmente perduto.
In fin dei conti si tratta di una parte di Roma poco frequentata dai turisti, ed ancora meno dai romani, ma invasa dal traffico. Ed io voglio renderle un po' dell'onore che merita, sperando di invogliarvi a farci una passeggiata.

Ora qualche altra immagine curiosa o toccante del cimitero:



Due tombe di bambini





Due tombe di poeti



Nel cimitero acattolico sono sepolti anche... "mici"




07 maggio 2007

LE FESTE ROMANE: LA VISITA ALLE SETTE CHIESE

Nel mese di maggio, entro il giorno che precede l'Ascensione, i devoti romani sono usi effettuare la tradizionale "Visita alle Sette Chiese". La “pratica”, sotto forma di processione, è seguita oramai da alcune decine o centinaia di fedeli ma, fino alla metà del secolo scorso, una gran folla di adepti si recava a piedi in preghiera alle sette basiliche più importanti di Roma, quattro basiliche maggiori e tre minori. Troviamo riscontro di questo "rito", come per la Festa di San Giuseppe, anche nello scritto “Usi, costumi e pregiudizi del popolo di Roma” di Luigi “Giggi” Zanazzo, poeta e cantore romano del ‘900.
Una dopo l'altra venivano “visitate” le sette chiese:

San Giovanni in Laterano


Santa Maria Maggiore


San Paolo fuori le mura


San Pietro in Vaticano (le maggiori)


e poi San Lorenzo fuori le mura


Santa Croce in Gerusalemme


San Sebastiano all'Appia Antica (le minori).


Il rito della processione (ma, forse, anche la prima vera e propria “scampagnata” di massa della storia) fu istituita da san Filippo Neri che, per “invogliare” il popolo romano alla pratica religiosa, studiò l’espediente di unire al fine religioso la "scampagnata", tradizione sempre cara ai romani (ennesimo caso, come abbiamo già visto per il Carnevale e per la festa di San Giuseppe, di commistione tra sacro e profano). E cosi, a metà percorso, si svolgeva una ricca merenda, che aveva luogo alla vigna dei Mattei, l'attuale Villa Celimontana.



Dopo la merenda si svolgeva in una cappella della villa un concerto con organo e coro.
Un'altra tradizionale caratteristica del rito era il "sermoncino del pupo", che consisteva nella “recita” di un sermone abbastanza semplice scritto appositamente per un bambino che lo doveva “declamare” in pubblico.
La tradizione delle "peregrinazioni" dei fedeli tra le varie chese della città venne instaurata fin dall'anno 1300, ad opera di papa Bonifacio VIII°, che iniziò la celebrazione del "Giubileo" a Roma, o "Anno Santo", durante il quale è possibile, per i pellegrini, “guadagnare” l'indulgenza plenaria dei propri peccati semplicemente recandosi presso le quattro basiliche maggiori ed attraversandone le relative “Porte sante”. All'inizio questo evento si ripeteva ogni 100 anni, poi si è passati a 50 ed infine ai 25 odierni. Inoltre sono stati celebrati due Anni Santi straordinari della Redenzione nel 1933 e nel 1985. Prima del 1950, per ottenere la remissione dei peccati, era "necessario" visitare tutte e quattro le basiliche; attualmente “è sufficiente” (forse a causa degli spasmodici ritmi della vita moderna) varcare la soglia di una soltanto di queste.
All'interno delle mura romane sono distribuite oltre duecento chiese e tre basiliche papali (fino al 2006 denominate “patriarcali”), alle quali si aggiungono le basiliche paleocristiane e stazionali e la basilica papale di San Paolo Fuori le Mura.



Le Sette Chiese di Roma in una incisione del 1575 di Antonio Lafréry.

03 maggio 2007

UNA PASSEGGIATA NEL GHETTO

Un altro angolo di Roma in cui è sempre piacevole passeggiare è il Ghetto Ebraico: nel vero e proprio labirinto di stradine che ne compongono la ragnatela, la vista si apre improvvisamente su luoghi che non ti aspetteresti di vedere e su quella che, forse, rimane l'ultima "autentica" Roma.
La presenza Ebraica a Roma risale al I° secolo e dal 1309 si hanno i primi riscontri di una vera a propria "Contrada Judaeorum"; nel 1492, poi, a causa di un consistente esodo da Spagna e Portogallo, la colonia divenne, per i tempi, imponente.
L’area del Ghetto è posta a ridosso del Teatro di Marcello, tra il Rione di Trastevere e Largo dell’Argentina. I suoi “confini” stabiliti da Papa Paolo IV° Carafa con la bolla "Cum nimis absurdum" nel 1555 ed edificati ad opera di Silvestro Peruzzi ("ovviamente", come da tradizione, relativa spesa di 300 scudi venne addossata alla stessa comunità ebraica), all'interno di essi, gli ebrei vennero rinchiusi fino a quando Roma non divenne capitale d'Italia.
Il Ghetto, racchiuso nelle mura che andavano da Ponte Fabricio al Portico d'Ottavia, fiancheggiando il Teatro di Marcello e proseguendo poi, passando per Piazza Giudea, fino a Vicolo de' Cenci, aveva al tempo due accessi (tre a partire dal 1577: uno in Piazza Giudea, uno a Sant'Angelo in Pescheria - tra il Portico d'Ottavia e il Teatro Marcello - ed il terzo addossato alla chiesetta di San Gregorio della Divina Pietà), che venivano sbarrati e sorvegliati al tramonto ed agli Ebrei era vietata la pratica delle attività economiche e professionali di rilevante importanza. Papa Sisto V° alleggerì i controlli ed ampliò i confini del Ghetto, che arrivarono a comprendere Piazza Giudea (oggi Piazza delle Cinque Scole, dal nome delle cinque scuole giudaiche: del Tempio, Catalana, Castigliana, Siciliana e la Scola Nova), Via del Portico d'Ottavia e la sponda del Tevere, dove erano allocate le famiglie più indigenti (che ad ogni piena del fiume venivano praticamente sommerse), aumentando anche il numero degli accessi a cinque (altri due in Via della Fiumara).
Il quartiere all'epoca di papa Paolo IV° contava 1750 persone ma nel corso dei secoli arrivò a contenerne quasi 5000 (in meno di tre ettari di territorio), quindi con condizioni igieniche e di ordine pubblico fortemente allarmanti. Il territorio del Ghetto venne ulteriormente ampliato da papa Leone XII°, agli inizi del 1800, comprendendo anche Via della Reginella e Via della Pescheria, con conseguente aumento degli accessi a otto.
L’abbattimento del muro di delimitazione del Ghetto avvenne nel 1848, sotto Pio IX°, quando il Ghetto venne definitivamente riaperto, grazie anche alla pressione esercitata dal patriota popolare Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio.
La maggior parte della popolazione ebraica di Roma, legata da forti tradizioni, scelse però di continuare a risiedere prevalentemente nella zona del vecchio Ghetto.

Uno degli "accessi" al Ghetto


A pochissimi metri dal Teatro di Marcello sono ancora oggi apprezzabili i resti del Portico d'Ottavia: i primi lavori di realizzazione del portico risalgono al II° secolo a. C. ma, in realtà, fu grazie ad Augusto che il complesso venne sviluppato dal 33 al 23 a.C. e, dallo stesso imperatore, dedicato a sua sorella Ottavia. In origine esso comprendeva due templi e le biblioteche greca e latina ed era ornato da ben trentaquattro statue equestri di bronzo che rappresentavano Alessandro e i suoi generali, opera del famoso scultore Lisippo, ma fu anche il luogo dove venne esposta la statua di bronzo raffigurante Cornelia, la madre dei Gracchi, prima statua pubblica raffigurante una donna.
Il Portico fu anticamente un vero e proprio centro di aggregazione culturale ma, malgrado ciò, a partire dal X° secolo, il portico e gli archi del Teatro di Marcello divennero sede di attività commerciali e artigianali, che furono all'origine del trasferimento in questa zona degli ebrei, costretti, in epoca medievale, ad abbandonare l'impoverito rione Trastevere. Gli ebrei, infatti, si posero, in questa ristretta zona, sotto la protezione delle potenti famiglie romane dei Mattei, dei Cenci e dei Pierleoni, che qui edificarono diversi palazzi nobiliari.

Due dipinti del pittore romano Ettore Roesler Franz raffiguranti la vita nel Ghetto di Roma alla fine del 1800




In epoca recente il ghetto è stato teatro di uno dei più tristi avvenimenti della nostra storia: la notte del 16 ottobre del 1943 i nazisti rastrellarono e deportarono 1021 persone, bambini ed anziani compresi. Solo una quindicina di essi, tra cui una sola donna, fecero ritorno dai campi di sterminio.

Fuga di tetti e campanili al Portico d'Ottavia


La Sinagoga sul Lungotevere


Loggetta al Portico d'Ottavia


Il "Foro Piscario", il mercato del pesce dell'antica Roma




Scorci del Portico d'Ottavia








Una delle entrate (!!) della Chiesa di Santa Maria del Pianto


La caratteristica principale della Chiesa di Santa Maria del Pianto è quella di non aver praticamente... la facciata ! Come molte altre chiese e simulacri deve la sua costruzione al fatto miracoloso di un’immagine della Madonna che, di fronte ad un crudele delitto avvenuto nei pressi nel 1546, iniziò a lacrimare. Nel 1612, ad opera di Nicola Sebregondi iniziarono i lavori per la costruzione, sul luogo dove sorgeva una precedente chiesa dedicata a S. Andrea, della chiesa dedicata appunto alla vergine piangente. La facciata rimase incompiuta e l'accesso alla chiesa avviene lateralmente, da via del Pianto e da Via Santa Maria dei Calderari (la cosiddetta “Piazza Giudea”), proprio di fronte ad un meraviglioso quanto piccolo forno che produce dolciumi nello stretto rispetto della tradizione ebraica (mitica la torta "ricotta e visciole" o "ricotta e cioccolato"). L’interno della chiesa, paradossalmente di proporzioni abbastanza ampie, è a croce greca mentre la cupola è ottagonale con decorazioni a stucco. Sopra l’altare maggiore, tra quattro colonne di alabastro, si ammira un affresco del xv° secolo, che precedentemente si trovava su uno dei muri del Portico d’Ottavia, raffigurante la Madonna del Pianto.

Alcuni scorci del Ghetto


La cupola ottagonale di Santa Maria del Pianto




Passeggiando per il Ghetto è impossibile non arrivare a Piazza Mattei: infatti uno dei cinque accessi al Ghetto era in Via della Reginella, che sbuca proprio in Piazza Mattei. I Mattei, come precedente detto, erano una delle famiglie più influenti e potenti della zona, tanto da detenere il "controllo" delle attività mercantili sul Tevere all'altezza dell'Isola Tiberina e sulla sponda sinistra del fiume. La potente famiglia aveva il proprio palazzo, edificato con largo uso di materiali sottratti all'antico Teatro di Balbo, proprio nella piazza che dalla famiglia prese il nome, e nella quale è possibile ancora oggi ammirare la splendida Fontana delle Tartarughe.
La fontana venne commissionata a Giacomo della Porta da Muzio Mattei nel 1581: in origine, su decisione della Congregazione delle Fonti (che aveva la facoltà di decidere la creazione di nuove fontane), alimentata per mezzo dell'acquedotto Vergine, doveva essere edificata in Piazza Giudea, dov'era il mercato, ma proprio su pressione dei Mattei (impegnatisi a far pavimentare la "loro" piazza ed a tenere pulita la fontana) nei confronti della Congregazione, venne edificata davanti il portone del Palazzo Mattei. Il progetto originario, i cui lavori furono condotti da Taddeo Landini, doveva rappresentare quatro efebi e otto delfini in marmo e, successivamente, in bronzo. Per problemi dovuti alla pressione dell'acqua vennero realizzati soltanto quattro delfini e l'opera fu conclusa nel 1588. I quattro rimanenti delfini vennero utilizzati nella Fontana della Terrina, posta prima a Campo de Fiori ed ora davanti la Chiesa Nuova. La fontana, costituita da una vasca quadra dagli angoli smussati con al centro un basamento da cui si innalzano quattro conchiglie in marmo e sulle quali si ergono quattro efebi in bronzo (in posa uguale e simmetrica), ciascuno dei quali sorregge una tartaruga che sembra abbeverarsi alla vasca superiore della fontana.









Due curiosità sono legate alla fontana: la prima è che le tartarughe furono aggiunte nel corso di un restauro eseguito nel 1658 per volere di Papa Alessandro VII° e sarebbero attribuite a Gian Lorenzo Bernini o ad Andrea Sacchi; la seconda curiosità è legata all'immancabile leggenda popolare: si narra, infatti, che il duca Mattei, avendo perduto gran parte del suo patrimonio al gioco, volesse stupire il suo futuro suocero, che per questo motivo rifiutava di dargli in moglie la sua bella e ricca figlia. Fece quindi realizzare, in una sola notte, la fontana. Il giorno successivo, convocati a palazzo padre e figlia per un ulteriore tentativo di chiarimento, li fece affacciare ad una finestra da cui si poteva godere lo spettacolo della fontana perfettamente funzionante, dicendo loro: "Ecco che cosa è capace di realizzare in poche ore uno squattrinato Mattei!". Ovviamente il matrimonio venne celebrato ma perché nessuno potesse più godere di quella visuale "magica" il duca ordinò di murare la finestra. E così è rimasta fino ai nostri giorni. La realtà che “sbugiarda” la leggenda sta nel fatto che la fontana venne eseguita nel 1585 mentre palazzo Mattei fu costruito, su progetto di Carlo Maderno, solo nel 1616. Ma qui la leggenda da il suo “colpo di coda” e si arricchisce di un particolare: la fontana sarebbe stata in realtà realizzata per il giardino privato di un palazzo principesco ed il duca Mattei si sarebbe quindi limitato a chiederla in prestito. Il trasferimento provvisorio, divenuto poi per motivi sconosciuti definitivo, avvenne proprio in quella notte.
Nell'adiacente Via de' Funari (che deve il suo nome ai molti fabbricanti di funi che avevano bottega in questa strada) sorge il Palazzo Mattei di Giove nei cui due cortili interni si possono ancora oggi ammirare numerosi reperti marmorei di epoca romana.
Palazzo Mattei di Giove fa parte della cosiddetta "isola Mattei", insieme agli altri edifici di Giacomo Mattei, di Mattei di Paganica e di Alessandro Mattei, e fu costruito per volere di Asdrubale Mattei, duca di Monte Giove (da cui il nome del palazzo), al posto di alcune case di famiglia che furono demolite. I lavori iniziarono nel 1598 su progetto di Carlo Maderno e terminarono nel 1617, con la costruzione del braccio di collegamento dell'edificio con il palazzo di Alessandro Mattei. L'edificio di tre piani ha un duplice ingresso da due portali. Il primo cortile, progettato dal Maderno per contenere la collezione di marmi antichi del duca Mattei, ha le pareti interamente rivestite di frammenti antichi di varia natura (sarcofagi, rilievi, epigrafi, iscrizioni) tutti collocati dentro cornici di stucco. Il cortile è inoltre impreziosito dalla presenza di alcune statue romane che raffigurano personaggi maschili, creduti un tempo ritratti di imperatori romani. Le famose collezioni che un tempo riempivano il palazzo arricchiscono oggi molti musei e raccolte private in Italia e all'estero. Nel secondo cortile-giardino vi è una fontana, caratterizzata da un mascherone che getta acqua in un elegante sarcofago. Dopo l'estinzione della famiglia Mattei di Giove, avvenuta alla fine del Settecento, il palazzo venne ereditato dagli Antici Mattei, a seguito del matrimonio tra l'ultima Mattei, Marianna, e il marchese Carlo Teodoro Antici di Recanati, zio di Giacomo Leopardi: ed il poeta vi soggiornò, ospite, in una stanza del terzo piano. Dal 1938 il palazzo è di proprietà dello Stato ed attualmente vi ha sede il Centro italiano di studi americani, la Biblioteca e l'Istituto di storia moderna e contemporanea.

I cortili del Palazzo Mattei di Giove
















"Divieto di luce ???"