29 giugno 2007

LE FESTE ROMANE - SAN PIETRO E PAOLO

Prima di tutto c’è da dire che, con molta probabilità, i due apostoli non furono in effetti contemporaneamente martirizzati il 29 giugno del 67 d.C.: questa data è infatti legata, come vedremo, all'antica festività romana del dio Quirino.

Moneta raffigurante il Dio Quirino

Però la solennità dei santi Pietro e Paolo, sepolti nelle omonime basiliche romane, è il più antico esempio di trasfigurazione di una festa romana in festa cristiana. La data è attestata nel più antico calendario liturgico pervenutoci, la “Depositio martyrum filocaliana”, nella quale si fa risalire al 258 la festa celebrata inizialmente al terzo miglio della via Appia. In realtà, come detto, i due apostoli morirono in date e luoghi diversi: Pietro fu crocifisso, con la testa in basso, nello stadio di Caracalla, presso il colle Vaticano, durante la persecuzione neroniana del 64, mentre Paolo fu decapitato nel 67 (essendo cittadino romano non poteva subire la pena, considerata infamante, della crocifissione), sempre sotto Nerone. Anche la data del 29 giugno per Pietro è improbabile perché la persecuzione di Nerone iniziò dopo l'incendio divampato fra il 18 e il 27 luglio: si ritiene che Pietro venne effettivamente giustiziato nel mese di Ottobre del 64 d.C.. Come detto, la festa di San Pietro e San Paolo riprende la festa di Quirino, divinizzazione di Romolo, il fondatore di Roma, e, festeggiando Pietro e Paolo nella stessa data, i cristiani li onoravano come fondatori della vera fede nell'Urbe. Quirino era il dio romano delle curie e delle pacifiche attività degli uomini liberi. Sull'origine del nome c'erano ben tre ipotesi già nell'antichità: il termine si fa risalire alla Curis, l'asta da guerra usata dai Sabini, oppure alla città di Cures, patria di Tito Tazio, che aveva introdotto il culto del dio a Roma o, ancora, una terza teoria collega il nome del dio a quello della popolazione dei Quiriti, l'antico nome di uno dei gruppi fondatori di Roma, precisamente quello dei Sabini, stanziati sul colle Quirinale. Oggi si ritiene più probabile che il nome del dio sia effettivamente derivato da quello della curia e dei Quiriti, col significato di patrono delle curie e degli uomini in esse riuniti. La festività denominata Quirinalia, cadeva il 17 febbraio ed era celebrata dal "Flamen Quirinalis", il terzo dei “flamini maggiori" (il Flamen era il sacerdote dell'antica Roma preposto al culto di una specifica divinità, da cui prendeva il nome e di cui celebrava il rito e le festività. I Flamini erano distinti in Flamines maiores, tre, e in Flamines minores, dodici; ai primi fu successivamente aggiunto un flamen in onore di Giulio Cesare). L'importanza di questa festa era data dal suo valore "civico" e "cosmico" a un tempo: il valore "civico" stava nel fatto che essa sottraeva ad un ordinamento gentilizio la totalità dei cittadini, dando loro la possibilità di configurarsi come tali anziché come membri di una singola curia. Quest'operazione si può inquadrare nel processo che portò gradualmente i romani dalle assemblee curiali alle assemblee popolari. Nel giorno dedicato a Quirino era concesso celebrare il rito della prima torrefazione del farro a coloro che non lo avevano fatto in precedenza, nel giorno prescritto dalla propria curia. In tal modo coloro che, per forza di cose o per propria volontà, si sottraevano all'ordine curiale (e per questo venivano considerati "stolti") rimediavano sul piano religioso, ricorrendo al dio Quirino, la cui festa era detta anche "festa degli stolti" ("stultorum feriae"). Il rito del farro è quello che fornisce il valore "cosmico", segnando la fine del ciclo del vecchio farro e l'inizio del ciclo di quello nuovo. Il più antico santuario di Quirino era sulla rupe più alta del colle Quirinale; in seguito gli fu dedicato un tempio presso la Porta Quirinale e poi un altro nel 293 a.C., nel quale era conservato il trattato fra Roma e Gabii, scritto su una pelle di bue che copriva uno scudo. Questo tempio fu restaurato da Augusto nel 16 a.C. e il giorno della dedica, il 29 giugno, divenne la nuova festa di Quirino. Un “mito” interessa la figura del dio Quirino: quello concernente l’assimilazione di Romolo, fondatore di Roma, al Dio stesso. Quirino, dio sabino, era stato assimilato a Romolo intorno all'inizio del secolo III° a.C., quando le leggende sull'origine di Roma avevano cominciato ad assumere la struttura definitiva. Fin da allora si proposero le due contrastanti versioni di "Quirino-Romolo" e di "Quirino-Sabino", e fin da allora queste due "entità" diedero origine a due orientamenti politico-religiosi legati allo stesso Quirino. Prima dell'intervento dei Giulii, che ufficializzarono l'identificazione Quirino-Romolo, né l'una né l'altra delle concezioni di Quirino era riuscita a sovrastare la rivale. Anche i poeti dell'età augustea preferirono la figura di Quirino-Romolo, come testimoniano Ovidio e più tardi Plutarco. Infatti quest'ultimo narra che dopo la scomparsa di Romolo si era diffusa la voce che il fondatore di Roma fosse stato ucciso dai nobili. Un colono di Alba, di nome Giulio Proculo, si presentò nel Foro e davanti a tutti, disse: "O Romani, lo giuro: mentre venivo qui, Romolo mi è apparso e mi è venuto incontro, bello e grande come mai prima di allora l'avevo visto, rivestito di armi luminose e abbaglianti. Sconvolto dall'apparizione gli domandai: - O re, che fai o hai in animo di fare per lasciare i patrizi esposti ad accuse false e malevoli, e la città tutta immersa in un dolore senza fine per la perdita del suo padre? - Egli mi rispose: - Agli dèi, o Proculo, dai quali provengo, piacque che io rimanessi tra gli uomini soltanto tanto tempo quanto ci fui e che, fondata una città destinata a grande imperio e gloria, di nuovo tornassi in cielo. Ma fatti animo, và a dire ai Romani che se coltiveranno la moderazione e il valore giungeranno al più alto grado di potenza concesso ai mortali. Io sarò il vostro dio protettore, Quirino -".». Fino all'uccisione di Remo, Romolo è un gemello inseparabile dal fratello, come testimonia anche la celebre "Lupa del Campidoglio".

La Lupa del Campidoglio


Sicché la festa del 29 giugno aveva la funzione di celebrare i due gemelli ancora uniti nella fondazione di Roma: a dimostrazione di ciò si può osservare un frammento, oggi conservato nel Museo delle Terme, che rappresenta Romolo e Remo, attorniati da vari personaggi, mentre osservano il volo augurale degli avvoltoi che precedette, secondo la leggenda, la nascita di Roma sul Palatino. I cristiani si ispirarono alla festa per trasfigurarla nella solennità dei due apostoli considerati i fondatori della nuova Roma. Infatti papa Leone Magno, verso la metà del secolo V°, si rivolse in un sermone pronunciato il occasione di questa festa, a Roma personificataricordandole che gli apostoli le avevano portato il Vangelo di Cristo, trasformandola da «maestra di errore» in «discepola di verità». «Quelli sono i santi padri tuoi e i veri pastori che ti fondarono, molto meglio e molto più felicemente di coloro per opera dei quali fu stabilita la prima fondazione delle tue mura», rammentando che Romolo aveva macchiato la nascita della città col sangue fraterno.

San Pietro e San Paolo giunsero a Roma dalla lontana Giudea ma si conserva ancora memoria persino degli esatti luoghi dove abitarono: Pietro nella domus del senatore Pudente, dove oggi sorge la chiesa di Santa Pudenziana, e Paolo sull'Aventino, presso Aquila e Priscilla, dove ora sorge Santa Prisca. Tradizione vuole che, scortati dai rispettivi plotoni ed incrociandosi presso la Piramide di Caio Cestio, si siano scambiati l'ultimo saluto per andare, Pietro ad essere crocifisso a capo sotto presso il Circo di Caligola in Vaticano, e Paolo ad essere decapitato alle Acque Salvie, località sulla via Ostiense segnata poi da tre prodigiose fonti (una calda, una tiepida ed una fredda) sgorgate al rimbalzare della sua testa mozzata.

L'incontro tra San Pietro e San Paolo presso la Piramide Cestia

Per molto tempo l'acqua di queste fonti fu distribuita ai fedeli, in quanto ritenuta miracolosa per varie malattie, ma nel 1950, a causa dell'inquinamento, il flusso venne chiuso. In quello stesso luogo sorge ora l’Abbazia delle Tre Fontane, e tre chiese sono state edificate sulle antiche sorgenti. Un santuario con una necropoli vi sorse fin da tempi antichi, ma il monastero vi fu fondato intorno al 625, ospitando monaci greci, per poi fiorire in età carolingia. Passò poi ai Benedettini, e infine nel 1140 ai Cistercensi, che lo ricostruirono secondo le rigorose norme del loro ordine, completandolo nel 1221. Nel 1600, in vista dell’Anno Santo, furono ricostruite le altre due chiese, ma poi l’intero complesso fu abbandonato a causa dell’imperversare della malaria, fino a che nel 1867-1868 Pio IX° concesse il complesso ai padri Trappisti, che provvidero al restauro degli edifici ed alla bonifica della zona mediante la piantagione di eucalipti, alberi che all’epoca si riteneva fossero di ostacolo al diffondersi del morbo. Dalla via Laurentina parte la via di Acque Salvie, che conduce al cosiddetto arco di Carlo Magno, accesso fortificato al monastero dell’VIII°-IX° secolo, che conserva nell’intradosso dell’arco stesso degli affreschi con Storie di Carlo Magno risalenti al XII° secolo (tradizione vuole che l’imperatore, sulla strada di Roma alla vigilia di Natale dell’800, abbia pernottato qui). La chiesa di San Paolo, è in fondo ad un viale che conserva il basolato romano in alcuni punti ed è una diramazione dell’antica via Laurentina. Nel 1936 gran parte del territorio dell'Abbazia fu espropriato per la realizzazione dell'Esposizione Universale di Roma, denominata E42 perché, su decisione di Mussolini, venne fissata per il 1942, ventennale della marcia su Roma. La guerra bloccò il progetto e le costruzioni ripresero soltanto nel 1951, dando vita ad un nuovo quartiere chiamato EUR (dalla sigla dell'Esposizione Universale di Roma) che divenne sede di uffici, musei e zona residenziale.

San Paolo alle Tre Fontane

Questa chiesa, eretta da Giacomo Della Porta nel 1599-1601, al posto di una precedente del V° secolo, sul sito dove l’apostolo subì il martirio, ha una pianta singolare, che ricalca quella del precedente edificio. Nello spazioso interno "trasversale" si può ammirare un bellissimo mosaico pavimentale policromo, proveniente da Ostia, con le personificazioni delle Quattro stagioni. Nell’angolo destro, dietro una grata, si può ancora oggi vedere la colonna cui San Paolo sarebbe stato legato durante il martirio, mentre nella parete di fondo e nell’abside, su tre livelli, le fontane disegnate dal Della Porta a memoria dell’evento miracoloso.

La colonna del martirio di San Paolo

Fino ai primi decenni del ‘900 il 29 giugno si faceva festa grande, a Roma, con le classiche scampagnate fuori porta: presso le osterie e le fraschette (come abbiamo visto nel post sulla Festa di San Giovanni) si poteva mangiare pagando solo lo "scommido" all’oste e portandosi da casa il "fagotto". San Pietro e San Paolo sono "citati" persino nei giochi dei ragazzini romani dell’800. Alcuni di loro, prendendosi per mano, cantavano: «San Pietro e San Paolo, opritece le porte!». E un'altra coppia di ragazzini, i due capi-gioco sorteggiati, dopo aver deciso, in segreto tra di loro, due parole d'ordine, ed abbinatele sempre in segreto all'Inferno una ed al Paradiso l'altra, presisi anch’essi per le mani ed alzate le braccia ad arco, rispondevano: «Le porte stanno aperte pe’ cchi ce vòle entra’!»; a questa risposta il primo gruppo di ragazzini, sempre tenendosi per mano a catena, doveva passare sotto l’arco correndo: a quello che rimaneva “imprigionato”, quando i due capi-gioco abbassavano le braccia, veniva chiesto quale delle due parole chiave avesse scelto: in base alla risposta veniva fatto mettere in una delle due piazzuole, raffiguranti il Paradiso o l'Inferno e dove, man mano, verranno raggruppati tutti i ragazzi. Quando tutti i ragazzi saranno collocati nelle due piazzole i due capi-gioco sveleranno loro quale sarà il "Paradiso" e quale l'"Inferno"; ovviamente quelli collocati, in base alla parola da loro stessi scelta, nella piazzola dell'Inferno saranno bersagliati dai sberleffi dei vincitori e pagheranno pegno.
Un'antica tradizione dei romani era quella di recarsi di buon
mattino presso i frati Trappisti alle Tre Fontane per gustare una "rosetta", pane tipico di Roma, riempita di cioccolata appena fatta.
Ai secondi vespri, chiamati dai romani familiarmente “vesperoni”, la statua di San Pietro, di Arnolfo di Cambio (nella basilica Vaticana), era vestita con gli abiti solenni del pontefice: l'amitto (un liturgico panno di lino rettangolare da indossare sulla testa), la stola, il piviale (mantello) rosso, la tiara sul capo e l'anello al dito. In sua presenza si benedivano i "pallii", che il giorno dopo sarebbero stati donati dal Papa a patriarchi, vescovi e metropoliti nominati in occasione della ricorrenza.

La statua di San Pietro (con il "piede lucido") di Arnolfo di Cambio

Al tramonto si svolge anche una processione, che ha come particolarità quella di portare una reliquia di San Paolo: la sua catena composta da 14 anelli di ferro, attualmente custodita nella basilica di San Paolo Fuori le Mura (così come la catena di San Pietro è custodita in San Pietro in Vincoli, dove si possono anche ammirare la meravigliosa tomba di Giulio II° ed il Mosè, entrambe opere di Michelangelo).

Il meraviglioso MOSE' di Michelangelo


La tomba di Papa Giulio II° (Giuliano Della Rovere)


Dopo il tramonto la cupola della basilica di San Pietro era illuminata a giorno da decine di fiaccole, mentre su Castel Sant'Angelo venivano fatti esplodere i fuochi d'artificio. Il giorno della festa, le campane svegliavano la cittàe da Napoli giungeva la "chinea", il cavallo bianco, che portava con sè un cesto pieno di 7000 scudi: il tributo angioino, distribuito ad orfani e vedove, poi il Papa passava, benedicente, in corteo per le vie della città. Alla fine si recava alla basilica di San Paolo ed alle Tre Fontane. Tutt'ora, ogni anno, la "consorella" Chiesa di Costantinopoli invia una delegazione a partecipare alla festa dei santi Pietro e Paolo.
Visto che il 29 era però prevalentemente dedicato a San Pietro ed alle funzioni religiose, si decise di onorare San Paolo il 30 Giugno ed era, questa, una giornata esclusivamente dedicata alle scampagnate ed ai festeggiamenti. Caratteristiche irrinunciabili nei due giorni di festa erano giocattolai ambulanti, e soprattutto porchettari: famosa rimane l'insegna «La porchetta de Cadorna, chi la magna ciaritorna», così come "Solo da Pasqualino er cocommero è sopraffino".
La basilica di San Pietro in Vincoli è detta anche Eudossiana, in quanto venne fatta ricostruire per volere di Eudossia, moglie dell'imperatore Valentiniano III°. Secondo la tradizione Eudossia ricevette dalla madre le catene che tennero prigioniero San Paolo a Gerusalemme per donarle a papa Leone Magno, che le accostò a quelle utilizzate per la prigionia di San Pietro nel Carcere Mamertino: la leggenda vuole che le catene appena si toccarono si fusero e diventarono tutt'una.

Le Catene di San Paolo e quelle di San Pietro

L'altare con le catene di Pietro nella chiesa di San Pietro in Vincoli

L'interno di San Pietro in Vincoli è diviso in tre navate, separate da dieci colonne di marmo, per ciascun lato, con capitello dorico e base ionica mentre il soffitto della navata centrale, in legno a volta ribassata, è adornato da un affresco di Giovanni Battista Parodi.

L'affresco del Parodi

L'apostolo Pietro, il cui vero nome era Simone, ricevette da Gesù stesso il nome di Kefa, che in aramaico significa "roccia", "pietra", e che in greco suona Petros ed in latino Petrus. Anche san Paolo lo chiamava Kephas. La tomba di Pietro è stata rinvenuta in corrispondenza dell'altare della basilica vaticana durante scavi effettuati nelle "Grotte vaticane" a partire dal 1939; solo nel 1953 furono trovati dei resti umani, attribuiti all'apostolo dopo le concordanze di numerosi esami scientifici. Sulla sua tomba la tradizione cristiana ha espresso precedentemente versioni contrastanti, a causa delle traslazioni che tale tomba ha subìto nei primi due secoli prima di tornare alla posizione originaria. Secondo altre testimonianze la tomba di Pietro era "ad Catacumbas", presso l'attuale San Sebastiano. La più antica rappresentazione di San Pietro consiste in un medaglione di bronzo, datato tra la fine del II° secolo e l'inizio del III°, su cui sono raffigurate le teste degli apostoli e conservato nel museo della Libreria Vaticana: Pietro mostra una testa arrotondata con il mento prominente, la fronte sfuggente, i capelli ricci e la barba folta. La grande precisione del cameo fa pensare ad un vero e proprio ritratto dell'apostolo. In molti affreschi Pietro appare come intercessore e protettore dei defunti nel giudizio universale. Nelle numerosi rappresentazioni di Cristo insieme agli Apostoli, Pietro e Paolo occupano sempre i posti d'onore alla sua destra ed alla sua sinistra. Nel periodo tra il IV° ed il VI° secolo è particolarmente frequente l'immagine della "consegna della legge" a Pietro: Cristo consegna a Pietro una pergamenta aperta o arrotolata in cui spesso si trova la scritta "Lex Domini". Nel mausoleo di Costanza, a Roma, questa è affiancata alla raffigurazione della consegna delle tavole della legge a Mosè. Pietro, nelle raffigurazioni arcaiche, tiene spesso un bastone nella sua mano, sostituito successivamente da una croce, su di una lunga asta, trasportata sulla spalla. Nelle rappresentazioni dei sarcofagi del V° secolo Gesù porge a Pietro le chiavi (solitamente due, talvolta tre) invece della pergamena, mentre dalla fine del VI° secolo la rappresentazione con le chiavi diventa prevalente e queste diventano un suo caratteristico simbolo.
Pietro e Paolo furono imprigionati presso il Carcere Mamertino: la loro cella (l'unica riportata alla luce) è visibile al 2° piano seminterrato, ove vi è una pozza d'acqua nella quale, secondo la leggenda, i due apostoli battezzarono i fedeli cattolici compagni di cella. Nella stessa cella è stata realizzata una cappella. Dai primi scalini d'accesso al 2° piano, sul muro a destra, è visibile il punto dove i centurioni romani imponevano la loro forza per far confessare ai santi il loro credo cristiano, così come cita la vicina lapide.
San Pietro è considerato il santo patrono di fornai, costruttori di ponti, macellai, pescatori, mietitori, cordai, orologiai, fabbri, calzolai, tagliapietre, costruttori di reti da pesca e di navi; è anche il patrono della longevità e del papato ed è invocato per intercedere in caso di rabbia, problemi ai piedi e febbre. È anche e soprattutto il patrono della Chiesa universale, oltre che uno dei patroni dell’Italia, di Roma, e dell'Umbria.
Paolo di Tarso, il cui vero nome era Saulo è considerato da molti il più importante discepolo di Gesù, nonchè la più importante figura nello sviluppo del Cristianesimo. Rappresenta un grande esempio di fede, per la quale cambiò completamente la propria vita, in seguito ad un evento miracoloso come da lui stesso descritto, dedicandola esclusivamente alla diffusione del Vangelo di Gesù Cristo, per il quale testimoniò fino alla morte. Nacque a Tarso, in Turchia, tra il 5 e il 10 d.C. da una famiglia ebrea della diaspora. Essendo di tale città, aveva diritto di cittadinanza romana, come disposto prima da Marco Antonio e successivamente dall'imperatore Augusto. Crebbe sotto l’influsso della cultura ellenistica ma con una rigorosa educazione ebraica: parlava quindi perfettamente sia l’ebraico che il greco. Come tutti i veri ebrei imparò il mestiere del padre, cioè costruire tende. Da ragazzo aveva partecipato alla lapidazione di Santo Stefano: essendo ancora minorenne non poteva lanciare i sassi ma, pur di rendersi utile, si era offerto di custodire i mantelli di coloro che li tiravano. Dedicatosi allo studio della Legge Ebraica lo irritava il fatto che i cristiani, pur così poveri e deboli, si fossero conquistata grande fama per essere persone ricche di aiuto reciproco, fratellanza, ed amore verso i propri simili. Saputo che a Damasco c’era un covo di cristiani, si fece affidare una scorta armata per stanarli, ma sulla strada per Damasco avvenne la sua conversione. Abbiamo tre descrizioni della conversione di Saulo; la prima, quella degli Atti degli Apostoli, ad opera di San Luca, e le altre due ad opera di Paolo medesimo. Secondo il suo stesso racconto, mentre a cavallo si recava a Damasco per arrestare i cristiani fuggiti da Gerusalemme, sarebbe caduto a terra accecato da una luce intensa, udendo la voce di Gesù che gli chiedeva il motivo della sua persecuzione. Da quel momento narra di essere rimasto cieco per tre giorni, senza mangiare e bere nulla, e di aver recuperato la vista solo dopo l'imposizione delle mani da parte di Ananìa, un cristiano inviato da Dio. Saulo interpretò l'evento prodigioso come una chiamata diretta a compiere la missione evangelica. Secondo il racconto degli Atti degli Apostoli, comunque, Ananìa stesso gli comunicherà che lui è stato scelto da Dio per evangelizzare il mondo. Saulo vuole sapere tutto del Nazareno che gli è apparso e gli ha parlato: visto che Ananìa non è all’altezza, si rivolge direttamente a Pietro, poi ai fratelli, si reca poi nel deserto tornando, infine, a Gerusalemme. Ad un certo punto Saulo prende la decisione di abbandonare il suo nome ebraico, che evoca un grande re d’Israele, ed opta per un nome latino: Paolo. Ad Atene Paolo parla nella piazza dove soggiornano gli intellettuali più sapienti ed indica loro che la vera sapienza si avrà quando accetteranno Cristo. Ormai Paolo, detto "apostolo delle genti", è una "mina vagante" per i vecchi ebrei, che usano il potere costituito a loro vantaggio: convincono il governatore romano ad imprigionare Paolo perché sovverte l’ordine pubblico. A dire il vero il governatore romano non riscontra niente di male nelle affermazioni di Paolo ma ha paura di eventuali ritorsioni e delle noie con i suoi superiori e fa imprigionare Paolo che, nella sua qualità di cittadino romano, si appella al giudizio dell'imperatore Nerone («Civis romanus sum. Cesarem appello!»): essendo un cittadino romano può essere giudicato solo nell’Urbe. Egli stesso, nel 57, aveva definito l'imperatore "autorità istituita da Dio", raccomandandone l'obbedienza ai cristiani. Paolo viene imbarcato per Roma, incatenato al centurione Giulio; in attesa del giudizio imperiale viene posto agli "arresti domiciliari" ma approfitta della legislazione romana, che è estremamente liberale e gli concede di affittare un alloggio, pur rimanendo costantemente sorvegliato da un soldato romano. Non sappiamo niente del periodo romano e non sappiamo quanti romani abbiano scelto di passare al cristianesimo per merito delle sue parole, ma sappiamo che Paolo, dopo essere stato assolto nel processo del 62, muore decapitato sotto la persecuzione di Nerone nel 67, dopo due anni di prigionia.
La conversione di Saulo è testimoniata anche da splendidi dipinti ed è curioso notare che, forse, i due più famosi sono opera dello stesso autore: Michelangelo Merisi da Caravaggio.
La Conversione di Saulo è un dipinto ad olio su tela di cm 230 x 175 realizzato tra il 1600 ed il 1601 dal Caravaggio su richiesta di monsignor Tiberio Cerasi, tesoriere generale di Clemente VIII°, che aveva commissionato ai due pittori più famosi attivi in Roma a quei tempi la decorazione della cappella appena acquistata nella chiesa di Santa Maria del Popolo. Caravaggio esegue la Conversione di Saulo e la Crocifissione di San Pietro, Annibale Carracci dipinge l'Assunzione della Vergine. La prima versione dei due dipinti di Caravaggio, eseguiti su tavole di cipresso, viene rifiutata, a causa della loro eccessiva sfrontatezza, dai rettori dell'Ospedale della Consolazione, nominati eredi dal Cerasi nel frattempo deceduto: il pittore eseguì allora, di entrambe, una seconda versione su tela, caratterizzata da maggiore pacatezza... il che le fece risultare molto apprezzate. Delle prime versioni dei quadri è rimasta la Conversione di Saulo, ora nella collezione Odescalchi-Balbi (mentre quello che può essere considerato il “secondo originale” è appunto ammirabile nella Cappella Cerasi nella chiesa di Santa Maria del Popolo): nel dipinto originario Paolo, con il capo reclinato all'indietro, mostra il volto terrorizzato allo spettatore mentre nella versione definitiva, caduto da cavallo, alza le braccia verso la luce divina che lo investe, con un’espressione serena e attenta, mentre il palafreniere osserva la scena bloccando il cavallo; per quanto concerne l’altro soggetto ne è stato rinvenuto un originario schizzo (grazie a recenti studi radiografici) sotto il definitivo.

La Conversione di Saulo, del Caravaggio, nella cappella Cerasi di Santa Maria del Popolo

La "prima" Conversione di Saulo, ora nella collezione Odescalchi-Balbi


23 giugno 2007

LE FESTE ROMANE - SAN GIUVA' DE GIUGNO: LA FESTA DEL SOLE, DELL'ACQUA E DELLE STREGHE

Intanto vi avverto che questo sarà un lunghissimo post (ma per omaggio a San Giovanni, la più amata e coinvolgente delle feste del popolo romano, non poteva essere altrimenti), per cui vi conviene stampare il file o leggerlo in più volte… a meno che non abbiate tempo da perdere. Oppure, magari, portarvi i fogli in spiaggia e leggerli mentre prendete il sole…….
Intanto "San Giuva’ de giugno", o “San Giovanni Grande”, perché tra i diversi “San Giovanni” che appaiono nel calendario cristiano quello di giugno (San Giovanni Battista) è il maggiormente festeggiato a Roma. Il Belli stesso in un suo sonetto ci dice che esistono ben tre San Giovanni:

Sonetto 1322 - Li San Giuvanni

Nun c’imbrojjamo co le spesce. (1) Piano.
Un conto è Ssan Giuvanni Evangelista,
un antro (2) conto San Giuvan Batista,
e un antro San Giuvanni Laterano.

Er primo è cquello c’ha la penna in mano,
l’uscello (3) fra le gamme (4) e ffa la lista.
Er ziconno (5) è la statua c’hai vista
che bbattezza er Ziggnore in ner Giordano.

Er terzo finarmente è un Zan Giuvanni
che nun ze pò ssapé (6) cchi bbestia sia, (7)
e nu l’ho mmai capito in quarant’anni.

Sii chi ddiavolo vò, (8) cquesto nun preme.
Però cquer Laterano è una pazzia
c’abbi da dí (9) ddu’-San-Giuvanni-inzieme. (10)

24 giugno 1834

1 Non c’imbrogliano colle specie: non confondiamo le cose. 2 Altro. 3 L’uccello. 4 Gambe. 5 Il secondo. 6 Non si può sapere. 7 Sia e sii sono una medesima voce. Sia per solito si dice dal volgo alla fine dei periodi, e sii per entro a quelli. 8 Vuole. 9 Che abbia da dire, significare. 10 Per comprendere meglio questo passo è da sapersi che la Chiesa di San Giovanni in Laterano è ugualmente dedicata all’Evangelista e al Battista.

"Il battesimo di Cristo" di Giotto

Anticamente, nel giorno del solstizio d’estate (che nel corso dei secoli, a seconda dei diversi calendari, ha variato data fra il 19 ed il 25 giugno), si festeggiava la riaffermazione ciclica della vita dalla morte, l’annuo rinnovamento della natura, e proprio questo giorno è il più lungo dell’anno. Quest’antico festeggiamento pagano e rurale si è venuto a sovrapporre, in epoca medievale, alla festività cristiana di San Giovanni. Ma le coincidenze non finiscono qui: infatti, come il solstizio estivo coincide con la festività di San Giovanni (unico santo, assieme alla Madonna ed a Gesù, di cui si celebra il giorno della nascita anziché quello della morte) così il solstizio invernale si sovrappone praticamente al Natale di Cristo (per questo la festa di San Giovanni veniva chiamata nei secoli passati “il Natale d’estate"). Il 24 Giugno è infatti strettamente legato al Natale, in quanto si fissò per la natività del Cristo l'ottavo giorno delle Calende di Gennaio (ovvero il 25 Dicembre) e conseguentemente l'Annunciazione nove mesi prima; l'Evangelista Luca narra che Maria andò in visita ad Elisabetta (la madre di San Giovanni Battista), quando questa era al sesto mese di gravidanza, proprio nei giorni immediatamente successivi l'Annunciazione, mentre l'Evangelista Matteo riporta che Cristo, parlando ai suoi fedeli di Giovanni, disse: "Egli è colui del quale sta scritto: Ecco, io mando davanti a te il mio messaggero che preparerà la tua via davanti a te. In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista".
Nell’antica Roma, nel mese di Aprile (da “Aperire” = schiudere), si festeggiavano divinità benefiche per la buona raccolta nei campi, ecco le più rilevanti:
FORDICIDIA (15 Aprile), festa dedicata a Tellure, la dea della terra: in ognuna delle 30 curie di Roma veniva immolata una vacca gravida e le ceneri del feto venivano sparse nei campi a scopo propiziatorio durante le Palilia;



CERIALIA (19 Aprile), festa dedicata a Cerere, dea della vegetazione: nel Circo Massimo si praticava il macabro rito di lanciare in aria delle volpi con delle fiaccole legate alla coda (la volpe incarnava lo spirito del grano);



PALILIA (21 Aprile), festa dedicata a Pale, dea della pastorizia: tutelava la prosperità delle greggi ed aveva carattere propiziatorio ed espiatorio. I pastori all’alba adornavano le entrate degli ovili con rami di lauro ed offrivano focacce e latte alla dea; poi, rivolti ad Oriente, Le recitavano quattro volte una preghiera. La sera seguente accendevano dei fuochi sopra i quali dovevano ripetutamente saltare, a scopo purificatorio.



Con l’avvento del Cristianesimo i vari imperatori romani si videro costretti ad accettare un compromesso con le superstizioni e le credenze popolari (che continuarono a sopravvivere incontaminate nei borghi lontani dalle città, almeno fino al Medioevo): nelle notti di luna piena i pagani (da “pagus” = villaggio) si recavano nei crocicchi delle strade o nei campi con delle torce o delle candele e, vestiti con pelli di animali, rievocavano gli antichi culti di Diana, Bacco o Giano (che essendo una divinità bifronte era il protettore dei crocicchi). Quando questi riti iniziarono ad essere considerati “opera della stregoneria” e dell’eresia, la Chiesa non negò l’esistenza delle antiche divinità pagane ma le trasformò in demoni negativi. Anche nella Divina Commedia di Dante Alighieri notiamo la presenza di esseri di origine sia pagana che cristiana: le Furie, le Arpie, Satana, Plutone. Prende così sempre più corpo la figura del Diavolo e la Chiesa iniziò ad accusare di stregoneria chiunque continuasse a praticare questi riti.
La festa di San Giovanni (la notte tra il 23 ed il 24 giugno) si può considerare una vera “festa mondiale” in quanto in moltissimi altri paesi, non soltanto europei, si celebrano in questo periodo le “feste solari”. Tre elementi ricorrono infatti in tutte le celebrazioni (religiose o pagane): il fuoco (sole), l’acqua ed i fiori. Le date possono non coincidere a causa dei diversi calendari religiosi o civili, ma i riti della “rinascita” e della “purificazione” sono comuni ad ognuna di esse. In questo giorno si usava (e si usa tutt’ora in molti luoghi) accendere fuochi, lanterne o candele, quasi a voler aiutare il sole a sconfiggere il buio della notte (quindi, in modo idealizzato, la morte) prolungando la durata della giornata di luce: quest’usanza è seguita tutt’ora in molti paesi africani ed asiatici. In Finlandia, durante la notte di San Giovanni, si lanciano al cielo delle scope in fiamme in modo che, volteggiando in aria, sembrino dei piccoli soli, poi si accendono dei fuochi nelle spiagge e si balla e canta intorno ad essi; in Grecia e nei paesi Slavi è credenza che chi non esporrà una fiaccola accesa nella notte di San Giovanni sarà esposto, per tutto un anno, alle disgrazie; in tutta l’area dell’Africa del nord, nel giorno dell’”Ansara” (24 giugno) si accendono dei fuochi nei cortili delle abitazioni, agli incroci delle strade e nei campi coltivati, ai cui fumi sono esposti i bambini ed i malati, in modo che possano essere fortificati o guariti dal potere del fuoco rigeneratore; successivamente le ceneri di questi fuochi vengono sparse nei campi considerandole propiziatrici di un buon raccolto. Alla presenza del sole e del fuoco purificatore viene accostato un altro simbolo universale di purificazione: l’acqua. Infatti è diffusa in tutto il mondo la pratica della purificazione per immersione: il battesimo cristiano, il “bagno comune” nelle acque del Gange o, come ancora si usa in Russia o in Germania, dove le donne, come spinta alla fertilità ed all’eliminazione delle negatività accumulate nell’anno, si lavavano il corpo con la rugiada notturna della notte di San Giovanni. In Ungheria le case vengono decorate con centinaia di fiori di verbena, mentre in Bretagna si adoperano le spighette di lavanda, di frumento ancora verde o di lino (che se rimarranno freschi per almeno due giorni saranno di buon augurio per le unioni tra gli innamorati); in Finlandia ed in Lettonia si svolgono invece delle vere e proprie gare di altalena: quanto più in alto i contadini sapranno spingere la propria altalena tanto più rigogliose saranno le piantine di grano dei loro campi. Altre credenze “profetiche”: in Ungheria le ragazze annodano dei fili di lana colorati ai fiori ancora non schiusi e quello che germoglierà prima indicherà il loro “destino”: il verde vuol dire amore, il nero dolore, il bianco morte…; così in Turchia le ragazze in età da marito sono use mettere tre fili di colore diverso sotto il materasso: la mattina del 24 giugno, appena svegliate, metteranno una mano sotto il materasso e prenderanno uno dei fili... se sarà quello bianco si sposeranno entro l’anno con un connazionale, se prenderanno il filo azzurro si sposeranno con uno straniero, se il filo sarà nero si sposeranno con un vedovo. In moltissimi paesi italiani si potevano osservare riti diversi, ma tutti legati in qualche modo al fuoco (o al sole), all’acqua (o alla rugiada, che simboleggia le gocce di sangue cadute dal capo decapitato di San Giovanni) ed alla natura. In Abruzzo i giovani erano soliti immergersi a mezzanotte nelle acque del Liri, mentre le ragazze dovevano porre (quasi come in Turchia!) tre fave sotto il cuscino: una con la buccia, una con mezza buccia ed una senza… la mattina ne prendevano una a caso e se era con la buccia avrebbero sposato un uomo ricco, se era senza avrebbero sposato un povero e se era con mezza buccia avrebbero vissuto una vita agiata ma senza troppi lussi; nelle Marche si scendeva ad immergersi nel mare, dopo aver visto sorgere il sole dalle alture di San Giovanni in Venere; in Piemonte si impastavano focacce con la rugiada della notte, che sembrava avere anche dei poteri miracolosi per la ricrescita dei capelli.
Addirittura, in epoca medievale, per "verificare" se una donna era una strega dedita alle arti magiche, si legava ad una trave e si immergeva nel corso di un fiume: se rimaneva a galla era provato fosse una strega... e veniva uccisa; se non rimaneva a galla... affogava comunque.



La Notte di San Giovanni è però anche famosa per essere considerata la Notte delle Streghe: le figure delle arcaiche divinità maligne (gli antichi Romani definivano "Strix" un uccello simile al gufo, con la testa grossa, il becco e gli artigli da rapace e dal piumaggio chiaro che, secondo la leggenda sembra si cibasse del sangue dei lattanto, che rapiva dalle culle strappandone le viscere; e secondo Plinio il Vecchio Striges erano donne tramutate in uccelli per sortilegio) si sono fuse, durante i secoli medievali, con la figura di Erodiade, che abbandonò il marito e andò a convivere con il cognato Erode Antipa. San Giovanni Battista condannò pubblicamente la condotta sua e di Antipa, che lo fece imprigionare; poi, per compiacere la bella figlia di Erodiade (Salomè), in realtà spinta a ciò dalla madre, lo fece decapitare.

Salomè con la testa del Battista, di Tiziano

Pentita di ciò, Erodiade (nel medioevo confusa con Salomè), tentò di baciare la testa mozzata del santo quasi a chiedere scusa (anche se ci sono testi che dicono che abbia agito così a causa di un amore non ricambiato dal santo) ma dalle labbra del santo uscì un vento furioso che le condannò entrambe a vagare perpetuamente nell’aria. E’ tradizione che le streghe, preparandosi al sabba che si tiene presso il famigerato Noce di Benevento, raccolgano nei boschi, durante la notte, le felci con cui prepareranno un unguento che le proteggerà durante il loro viaggio.


Stampa medievale che raffigura un sabba presso il noce di Benevento.

Saranno quindi di passaggio nella Piazza di San Giovanni in Laterano, a Roma. E qui si raduneranno (e sembra lo abbiano fatto fin dal 1782) i popolani, armati di campanacci, fischietti e bastoni, per scacciare le streghe, che sarebbero arrivate in groppa a scope di saggina o a diavoli, come recita una strofa cantata dai “carciofolai” abruzzesi:

"Belle, che andate pe' li sette sonni,
svejateve 'stanotte è San Giovanni,
È notte d'incantesimi. È' notte de magia,
le streghe, in groppa ai diavoli, volano in compagnia..."

La "Linda Maestra", del Goya.

Tutti i romani, prima di uscire di casa per andare in Piazza San Giovanni, provvederanno a rovesciare sull’uscio di casa una manciata di sale grosso ed a porvi vicino una scopetta di saggina: questo per non far entrare le streghe in casa poiché, essendo degli esseri estremamente curiosi, oltre che dispettosi, esse si fermeranno sull’uscio a contare i grani di sale ed i fili di saggina. Così facendo, però, perderanno ore preziose e saranno sorprese, all’alba, dai raggi del sole, che le dissolverà, essendo loro degli esseri notturni.
Così narra Giggi Zanazzo:In tutto il nord, dal cader della sera e fino all’alba successiva, si suonano le campane, poiché nulla hanno tanto a male le streghe quanto lo squillare delle campane. Tra i rimedi efficacissimi contro le streghe era anche tenuta la rugiada di San Giovanni: quindi il suono delle campane le teneva lontane affinchè non potessero cogliere le erbe nocive, poiché era ferma opinion che certe erbe sbocciate e colte in quella notte erano il toccasana degli incanti. Chi si bagnasse della rugiada di quella notte poteva vivere tutto l’anno al sicuro da stregonerie, quindi la gente non dormiva per andare nelle campagne a ricevere la “guazza miracolosa”. Come per il giorno di Natale a San Giovanni si celebrano tre messe: una a mezzanotte, l’altra all’alba e la terza all’ora nona. Durante quella notturna i preti e li cherici cantavano un inno lunghissimo contro le streghe, chiamato “la sequenza”. Narra la leggenda che la notte di San Giovanni l’ombra di due donne, cariche di catene, sono condannate ad aggirarsi nei pressi della basilica Lateranense, ove si conserva il teschio del Santo: di esse una dice all’altra: “Figlia, figlia, perché facesti?” e l’altra risponde: “Madre, madre, perché dicesti?” Esse sono Salomè e la madre Erodiade. Anzi, Erodiade, che erasi invaghita della bella testa del Battista, allorchè fu presentata ad Erode in un bacile d’argento, dicesi che volesse baciarlo: ma la testa si ritrasse indietro con espressione di disprezzo e soffiasse un tale soffio che madre e figlia ne furono spinte in aria ed andarono in giro per il mondo, come tutt’ora ci vanno.

Un’altra leggenda che riguarda San Giovanni è quella del “Nocchìlia”: una terrificante figura nata dalla fusione dei due profeti Enoch ed Elia, che dormiva – ed ancora lo fa - sotto la Scala Santa. Di lì, uscirà il Giorno del Giudizio, smascherando l'Anticristo e dando inizio al Giudizio Universale.
Così Giggi Zanazzo ancora descrive nel suo "USI, COSTUMI E PREGIUDIZI DEL POPOLO DI ROMA":

"La notte e er giorno de San Giuvanni"

La viggija de San Giuvanni, s’aùsa la notte d’annà’, ccome sapete, a San Giuvanni Latterano a ppregà’ er Santo e a mmagnà le lumache in de ll’osterie e in de le bbaracche che sse fanno appostatamente pe’ quela notte. For de la Porta, verso la salita de li Spiriti, c’era parecchi anni fa, ll’osteria de le Streghe, indove quela notte ce s’annava a ccéna. A ttempo mio, veramente, non se faceva tutta ’sta gran babbilogna che sse fa adesso. Ce s’annava co’ le torcie accese o cco’ le lenterne, perchè era scuro scuro allora, ppe’ divuzzione davero, e ppe’ vvedè’ le streghe.
Come se faceva pe’ vvedelle? Uno se portava un bastone fatto in cima a forcina, e quanno stava sur posto, metteva er barbozzo drento a la furcina, e in quer modo poteva vede’ bbenissimo tutte le streghe che ppassàveno llaggiù vverso Santa Croce in Gerusalemme, e vverso la salita de li Spiriti. Pe’ scongiuralle, bbastava de tienè’ in mano uno scopijo, un capodajo e la spighetta cor garofoletto. S’intenne che pprima d’uscì’ dda casa, de fôra de la porta, ce se metteva la scopa e er barattolo der sale. Accusì si una strega ce voleva entrà’ nu’ lo poteva, si pprima che sonassi mezzanotte nun contava tutti li zzeppi de la scopa e ttutte le vaghe der sale. Cosa che bbenanche strega, nu’ je poteva ariuscì’; perchè, si sse sbajava a ccontà’ aveva d’arincomincià’ dda capo. Pe’ non faccele poi avvicinà’ ppe’ gnente, bbastava a mmette su la porta de casa du’ scope messe in croce. Come la strega vedeva la croce, er fugge je serviva pe’ ccompanatico! Presempio, chi aveva pavura che la strega j’entrassi a ccasa da la cappa der cammino, metteva le molle e la paletta in croce puro llà, oppuramente l’atturava cor setaccio. Un passo addietro. Er giorno se mannava in parocchia a ppijà’ una bboccia d’acqua santa fatta da poco
1; perchè l’acqua santa stantiva nun è ppiù bbôna; e pprima d’uscì’ dda casa o d’annassene a lletto, ce se bbenediveno li letti, la porta de casa e la casa. Prima d’addormisse se diceva er doppio credo, ossia ’gni parola der credo s’aripricava du’ vorte: Io credo, io credo, in Dio padre, in Dio padre, ecc., e accusì ppuro se faceva de ll’antre orazzione. Nun c’è antra cosa come er doppio credo pe’ ttienè’ llontane le streghe! Si ne volete sapè’ dde ppiù ppoi, leggete: La notte de San Giuvanni, ossia Streghe, stregoni e ffattucchiere, scritturate dar medemo ’utore de ’sto libbro. Ammalappena, poi se faceva ggiorno, er cannone de Castello, che aveva incominciato a sparà’ dda la viggija, sparava diversi antri córpi, e allora er Papa, in carozza de gala, accompagnato da li cardinali e ddar Senatore de Roma, annava a ppontificà’, ossia a ddì’ mmessa in de la cchiesa. Detta messa, montava su la loggia che dà ssu la piazza de San Giuvanni Latterano, ddava la bbenedizzione, e ppoi bbuttava una manciata de monete d’oro e dd’argento. Sappiate poi che la notte de San Giuvanni d’estate (il solstizio d’estate) è la notte ppiù ccurta de la staggione; e quella de San Giuvanni d’inverno (il solstizio d’inverno) è la ppiù llónga. E quanno er giorno de San Giuvanni sorge er sole, s’arza bballanno. A ttempo mio, er giorno de San Giuvanni, usava de fa’ un pranzo2 fra li parenti, che cc’è er San Giuvanni ossia fra compari e commare pe’ ffa’ i’ mmodo che ssi cc’era un po’ dde ruzza fra de lloro s’arifacesse pace co’ ’na bbôna magnata de lumache. (Vedi: Streghe, stregoni e ffattucchieri). Er giorno de San Giuvanni, le regazze da marito, pe’ vvede chi sse sposeranno, hanno da fa’ quello che ho ddetto in ’sto medemo libbro ar nummero…

55. — Amore: Pe’ ssapé’ cchi avete da sceje pe’ mmarito.
Aspettate che arivi er giorno de la festa de San Giuvanni. Arivato quer giorno, voi a mmezzoggiorno in punto, pijate un pezzo de piommo, squajatelo sur fôco, e ppoi quann’è squajato, buttatelo in d’una scudella piena d’acqua. Allora vederete che quer piommo, in der gelasse che ffarà, fformerà un sacco de giôcarèlli de tutte le specie. Si ffra queli ggiôcarèlli ce ne vederete quarchiduno che rissomija a uno de li tanti ordegni, che uno de li vostri protennenti addopra in der su’ mestiere, allora, state certa che quer tale, propio lui, sarà quello destinato a sposavve. Si ppe’ ccombinazzione però, er piombo sciorto, in der gelasse in de ll’acqua, nun facessi gnisun scherzo de quer genero, allora pijate quella stessa acqua, spalancate la finestra, e bbuttatela pe’ strada. Er primo de li vostri caschènti
2 che ppasserà ssopra a quell’acqua, sarà er fortunato o lo sfortunato che vve sposerà.

Nel 1646 Innocenzo X, in occasione dell’ormai prossimo Giubileo del 1650, dette incarico al Borromini di ricostruire la Basilica di San Giovanni in Laterano (era appena terminato il lavoro di edificazione del corpo della Basilica di San Pietro in Vaticano, nella quale l’innalzamento di due campanili, a correzione del disegno originario del Maderno, aveva fatto esplodere l’ostilità latente tra il Borromini ed il Bernini). Il Borromini iniziò lo studio di ricostruzione ribaltando completamente (in tono polemico) il progetto originario del Bernini.
La ricostruzione ed il recupero di antichi monumenti fu una caratteristica (a sfondo religioso e politico) dell’età rinascimentale: avevano già operato in questo senso il Bramante, Raffaello e gli stessi Bernini e Borromini. Ridare valore alle antiche Basiliche, meta di pellegrinaggi soprattutto in occasione dei Giubilei, era un modo per riaffermare l’autorità universale della Chiesa Romana. San Giovanni in Laterano ovviamente non poteva “competere” con San Pietro in Vaticano in quanto quest’ultima chiesa sorgeva sulla tomba di Pietro, il primo dei Papi, e la sua costruzione era durata, in varie fasi, più di due secoli. Ciò non toglie che San Giovanni sia stata la sede dei papi per più di mille anni: per questo sarà destinata a diventare il prototipo della “chiesa moderna” (sorgendo sulle rovine delle basiliche che nel corso dei secoli sono sorte “una sull’altra”). Borromini preserva il perimetro dell’antica basilica, mentre nella costruzione di San Pietro sono state distrutte praticamente del tutto le rovine dei precedenti insediamenti. Il suo progetto avrebbe voluto veder sorgere la basilica di San Giovanni dalle fondamenta ma Innocenzo X dispose che: “… le anticaglie si vadino conservando al possibile…”; quindi i lavori si limitarono alle cinque navate e la centrale rimase perdipiù senza volta. A causa del poco tempo e delle limitate finanze i lavori puntarono alla creazione di una navata centrale tanto ampia da poter accogliere la gran massa di pellegrini in visita, immaginata quindi come una immensa e luminosa sala di ricevimento. Il termine “basilica” in fondo vuol dire “sala règia”.
Già dal finire del XIII secolo, quando la società cristiana era pervasa dalla convinzione di essere prossima ad apocalittici avvenimenti, legati alle credenze che si rifanno vive alla fine di ogni secolo o di ogni millennio, ed all’avvento di una (per lo più presunta) nuova era, si iniziò a sentire il bisogno di “aver l’animo pulito”: di usufruire di un “grande perdono” collettivo. Per questo Bonifacio VIII° indì nel 1300 (in occasione del 13° centenario della nascita di Cristo) il primo Giubileo (si stabilì, nella Bolla papale pubblicata a metà di Febbraio del 1300, che: “A partire dalla notte di Natale di ogni centesimo anno, i fedeli i quali, pentiti e comunicati, avessero visitato le tombe degli apostoli per 15 giorni, anche non consecutivi – per i residenti a Roma i giorni erano elevati a 30 – avrebbero goduto della piena remissione dei peccati”). Tutti i pellegrini che avrebbero ottemperato alle condizioni richieste avrebbero usufruito quindi del perdono universale. Successivamente, visto il grande successo (spirituale ma soprattutto economico) del primo Giubileo, si decise di abbreviare i tempi delle scadenze giubiliari: Urbano VI l’accorciò a 33 anni (“…qui fuerunt totum tempus vitae ipsius nostri Salvatoris…”), poi portati a 50 (da Clemente VI, spinto a ciò da una delegazione che lo raggiunse ad Avignone) o 25. In occasione del primo Giubileo la popolazione romana crebbe di oltre 200 mila unità e si calcola che il numero di pellegrini giunti a Roma sia stato di oltre due milioni: tra loro non c’è traccia di personaggi di rilievo, sovrani o principi, ma sembrerebbe vi abbiano partecipato solo semplici popolani. Martino V°, nel 1425, per la prima volta fece aprire una “Porta Santa” in San Giovanni: nell’apertura di questa porta (da non aprire con una chiave ma da abbattere con un martello ...perché le porte della giustizia e della misericordia cedono solo alla forza della preghiera e del pentimento...
) è chiaro il valore simbolico: l’entrata dei fedeli nel regno di Dio. Alle parole del Papa: Haec est porta Domini” fa eco il grido di esultanza del popolo: “Iusti intrabunt per eam”. Quindi la prima porta santa non fu aperta in San Pietro, dov’erano ben cinque porte d’accesso (l’Argentea, la Romana, la Ravennina, la Guidonia e la porta della Giustizia) ma in San Giovanni e, per questa occasione, venne addirittura coniata appositamente una medaglia, da vendere ai pellegrini, che raffigurava la porta santa e la frase pronunciata dal Papa.


Nel 1470 Paolo II abbreviò ancora di più l’intervallo giubilare, portandolo a 25 anni. In occasione del Giubileo del 1500 Alessandro VI, stabilendo il cerimoniale che praticamente viene adottato ancora oggi, dispose che venisse allestita una Porta Santa in ognuna delle quattro Basiliche Patriarcali: quella di San Pietro sarebbe stata “abbattuta” dal Papa in persona mentre quelle di San Giovanni, San Paolo Fuori le Mura e Santa Maria Maggiore, sarebbero state aperte da tre cardinali da lui designati. Nel corso dei secoli i Giubilei portarono a Roma milioni e milioni di pellegrini, che arrivavano da tutta Europa nella “città del Papa” attraverso la Via Francigena. Per questo a partire dal 1575 vennero compiuti grandi sforzi per migliorare la loro accoglienza: il 26 Febbraio 1574 il Papa promulgò un decreto nel quale proibiva l’aumento delle pigioni e lo sfratto degli inquilini durante l’anno giubilare. In questi anni fioriscono le Confraternite: associazioni che riuniscono tutti coloro che esercitano uno stesso mestiere e, come tali, diventano di fatto delle vere e proprie compagnie di pellegrini… i primi veri “tour operator”. I pellegrini, essendo per la maggior parte dei semplici contadini o popolani, giungevano a Roma a piedi ed alla loro accoglienza provvedevano appunto gli ospizi e le organizzazioni collegate alle varie confraternite. Iniziarono anche a comparire delle vere e proprie “piantine topografiche di Roma” con evidenziate le quattro basiliche patriarcali e le altre chiese maggiori della città: la prima piantina di cui si ha traccia è quella pubblicata da Antonio Lafrery ed attribuita a Du Pérac.


Parallelamente si iniziano anche a trovare le prime “guide turistiche” di Roma con indicazioni nella lingua madre del pellegrino ed in latino (mirabile resta la guida a colori con la rappresentazione delle 7 chiese maggiori di Roma, ad opera di Seutter). Per testimoniare i vari avvenimenti degli anni santi si usava il semplice linguaggio delle stampe: la più famosa è senz’altro quella del Picardi (del 1600) che rappresenta la cavalcata papale per prendere possesso della basilica Lateranense.
Oltre l’ampliamento delle basiliche, in occasione dei giubilei, si può assistere ad un notevole aumento di opere architettoniche: tra queste le più evidenti sono forse gli obelischi. In occasione dell’Anno Santo del 1600 i pellegrini poterono ammirare ben quattro nuovi obelischi, fatti erigere da Sisto V davanti le basiliche di San Pietro, Santa Maria Maggiore, San Giovanni ed in Piazza Santa Maria del Popolo. Il motivo dell’innalzamento degli obelischi va ricercato nel significato recondito di queste opere: queste, infatti, nel passato erano assunte come simbolo della vittoria romana sulle terre d’Oriente, quindi potevano essere considerate dei simboli di trionfo del Cristianesimo sull’eresia e sul paganesimo.
Nel XVII secolo si può notare una vera e propria nascita del professionismo nel settore dell’accoglienza dei pellegrini ed in quello dell’organizzazione di feste e cerimonie; si sviluppano, in questo secolo, i mercati nelle maggiori piazze romane (e soprattutto davanti le basiliche), mercati nei quali erano venduti dagli oggetti di culto, in ricordo del pellegrinaggio, alla paglia, sulla quale i pellegrini senza alloggio potevano passare la notte. Il comportamento dei pellegrini, così come quello degli ecclesiastici, era regolato in questi periodi da editti papali: gli ecclesiastici non potevano indossare parrucche ed i laici il collarino; il comportamento delle meretrici era strettamente controllato, così come quello degli osti e dei tavernieri. Diciamo che durante il giorno il sacro riesce a prevalere sul profano mentre al tramonto il popolino si ritrovava nelle strade e nelle osterie per divertirsi. Forse anche troppo, visto che nel 1825 addirittura vennero proibiti i canti ed i balli e gli orari delle osterie venero limitati fortemente.
Le campanelle sono state sempre uno strumento particolare nella festa di San Giovanni: campanacci di ferro, campanelle e fischietti di terracotta erano quasi obbligatori per partecipare alla festa, con la scusa di utilizzarli per scacciare le streghe, come le corone di teste d’aglio, i “garofoletti” (mazzetti di fiori intrecciati, come la lavanda) e le scopette.



Le migliaia di campanelle di terracotta vendute in occasione della festa provenivano principalmente dal Frusinate: nei paesi di Arpino, Ceprano, Ceccano, Veroli ed Alatri la produzione di oggetti di terracotta era la maggiore attività commerciale. Le campanelle, di terracotta grezza riproducevano dei motivi floreali o delle scritte beneauguranti oppure erano dipinte, generalmente, con i colori base dell’artigianato laziale: ocra, giallo, marrone, verde.
Il popolo romano è sempre stato dedito alle feste, religiose o civili che fossero, tanto che anticamente era famoso il motto “Panem et circenses”. Le feste "accertte" del calendario romano erano ben 182, la maggior parte delle quali dedicate a riti agricoli o a divinità propiziatorie. Molte altre, minori, non sono catalogabili. La maggior parte di queste feste si svolgeva sotto forma di cortei (a volte anche con personaggi vestiti di pelli animali) presieduti dalle massime autorità ed ogni ricorrenza aveva i suoi giochi: i "Robigalia" la corsa nei sacchi, l’ "Equus october" le corse di cavalli, le "Cursualia" le corse a piedi o sui muli, le "Palilia" i salti su falò accesi, il "Carnevale Romano" le corse degli Ebrei, degli storpi, la corsa dei cavalli Berberi e il corteo in maschera lungo Via del Corso (chiamata così proprio per il corteo carnevalesco che vi si svolgeva).



Frequenti erano anche, dal Rinascimento in poi, le esibizioni circensi, di acrobati, giocolieri e danzatori. Le rappresentazioni mimiche e di danza riprendevano i movimenti rituali che si svolgevano durante le cerimonie propiziatorie ed i movimenti corporei rappresentavano il trionfo delle forze benefiche su quelle malefiche. Molte furono le festività pagane che la Chiesa “trasformò” in religiose: il Capodanno, il Natale (solstizio d’Inverno), il Carnevale, la Pasqua, San Giovanni (solstizio d’estate), le feste di Maggio ed Ottobre, periodi di raccolta. Per questo le riforme attuate sul calendario portarono allo slittamento di alcune date rispetto alle festività precedentemente celebrate. Nella seconda metà dell’800 iniziò però, purtoppo, a dissolversi la predisposizione alle feste: anche la festa di San Giovanni si ridusse ad un banchetto nelle osterie intorno la piazza o lungo la Via Appia Nuova, in cui si mangiavano lumache (che simboleggiavano, con le loro corna, i rancori accumulati durante l’anno; per cui mangiare lumache con qualcuno voleva dire cancellare i rancori che, l’un l’altro, ci si portava: questa pratica era detta del “comparatico”).
I giochi che i romani perpetuavano dai tempi antichi nelle osterie, o nelle loro immediate vicinanze, erano la Ruzzica, le Fossette, la Morra, il Tiro alla fune, l’Albero della cuccagna, le Bocce, la Passatella, i Dadi, il Biribisse, la Canoffiena (una sorta di altalena collettiva), il Saltalaquaglia. La Ruzzica consisteva nell’arrotolare una funicella intorno ad un disco di legno, molte volte sostituito da una forma di formaggio stagionato, e lanciarlo: vinceva chi lo faceva rotolare più lontano, spesso seguendo addirittura un percorso ad ostacoli prestabilito (quando si giocava con la forma di formaggio il premio per il vincitore era spesso quello dei perdenti); la Morra, di origine greca o saracena, pur essendo uno dei giochi che maggiormente potevano passar inosservati era uno dei più violenti, tanto che spesso ci scappava il morto: Giggi Zanazzo così lo spiega: “Si giuoca alla morra soltanto dagli adulti, in due, in quattro ed anche di più. Per mezzo della conta si scelgono i compagni. Esso consiste nel gettare subitamente davanti al compagno di giuoco la propria (mano) destra, tenendo piegati uno o più diti, e nell’annunziare allo stesso tempo il numero di quelli che, fra la destra dell’uno e dell’altro, si lasciano distesi. L’altra mano segna i punti guadagnati. Bisogna che l’avversario colga l’intenzione con destrezza per formulare lo stesso numero delle dita distese; questa forzata partecipazione, l’estrema attenzione per non isbagliare, la rapidità dei giri, fanno si che tutti e due slancino le loro voci in un tono molto vibrato. I volti si fanno ardenti finchè le voci, ansanti e rauche, pronunciano con una secchezza gutturale i numeri compendiati in grida monosillabiche: Un’… Quatr’… du’… tre… cinq…”.
L’altro gioco “pericoloso”, quindi spesso vietato, senza fortuna, dalle autorità, era la Passatella: di origine greca era praticato dai romani soprattutto nelle osterie. Consisteva nell’eleggere un re o un “arbitro di bevute” che, per regolare il gioco, stabiliva arbitrariamente delle regole: la passione che i romani nutrivano per il vino portava coloro che, di volta in volta, venivano esclusi dal gioco a profondi risentimenti, che a volte causavano addirittura delle sanguinose vendette; il Biribisse consisteva nel chiamare a dadi i numeri scritti su un tabellone insieme a figure propizie o negative: si cercava di indovinare la propria sorte in base alla figura sulla quale si capitava; il gioco delle Fossette consisteva nello scavare in terra 9 fossette su tre linee parallele: nella centrale si mettevano le monete e, ad un segnale stabilito, i giocatori tiravano bocce di legno verso le fossette... chi riusciva a mandare la propria nella fossetta centrale vinceva tutte le monete; il Saltalaquaglia consisteva in una fila di giocatori disposti in fila uno dietro l’altro ed incurvati con le mani sulle ginocchia; l’ultimo rimaneva ritto e, prendendo la rincorsa, saltava sulla schiena di tutti i compagni, uno alla volta, curvandosi anche lui una volta saltato l’ultimo. Il primo della fila a questo punto si raddrizzava e saltava a sua volta i compagni: chi, stanco, cadeva pagava pegno (in genere la bevuta ai compari).


La Ruzzica


La Morra


La Passatella


Il Saltalaquaglia


Le Bocce

La Canoffiena

Si narra che, durante il Giubileo del 1850, in Piazza del Popolo si svolse il gioco chiamato: "l'Imboccata ar Corzo" o “Scommetto dieci Paoli contro uno su Paolo dal berretto rosso”: nella piazza, invasa da decine di persone bendate, il presidente di gara, ai piedi dell’obelisco, solleva la borsa piena d’oro, premio per il vincitore: i partecipanti vengono fatti ruotare su se stessi tre volte poi si lasciano andare. Vince chi per primo riesce ad imboccare Via del Corso, tra ali di folla urlante indicazioni più o meno esatte. La stessa corsa veniva fatta in diversi periodi dell'anno anche in Via Giulia, in Via del Babuino, in Via di Ripetta. A volte cambiavano alcune regole: ad esempio tutti i partecipanti versavano una "posta, cui si aggiungevano le varie puntate dei popolani spettatori; nessuno poteva parlare o suggerire la strada esatta, pena il pagamento della posta al posto dell'amico bendato cui aveva rivolto il suggerimento. La gara si concludeva quando uno dei partecipanti raggiungeva una qualunque delle imboccature delle strade parallele al Corso (Via del Babuino, ex Via degli Orti di Napoli - da una colonia di napoletani che vi si era insediata nel 1500 - e Via di Ripetta) oppure toccava (o vi ruzzolava sopra) i gradini delle chiese di Santa Maria di Montesanto o di Santa Maria dei Miracoli (ai rispettivi angoli di Via del Corso): in questi casi la vincita consisteva nel riappropriarsi della propria posta. Se invece il partecipante riusciva ad imboccare Via del Corso vinceva il doppio della somma scommessa, oltre una percentuale di quelli che avevano scommesso su di lui. Ovviamente la somma rimanente andava agli osti della zona per pagare il vino che veniva offerto per "dissetare" i partecipanti e gli spettatori.
Le osterie, nell’800 accessibili anche alle donne, sono punti di ritrovo delle classi popolari che qui danno libero sfogo alla loro voglia di divertirsi: grande importanza, come detto, hanno avuto quei giochi che, pur portando ogni tanto a dispute ed accoltellamenti, sviluppano, con le loro regole a volte complesse, le capacità di calcolo, prontezza e l’uso di un linguaggio convenzionale.



Nel 1751 un editto papale vieta il contrabbando delle carte da gioco realizzate contraffacendo quelle legali, prodotte dal “Venerabile Ospizio Apostolico dei Poveri Invalidi di Roma”. Lo stesso editto vieta anche il gioco dei dati, giudicandolo “troppo pernicioso”.



Queste scene da osteria sono state spesso riprodotte da molti artisti, non solo italiani, in quadri, incisioni o versi: i più famosi artisti possono essere considerati Bartolomeo e suo figlio Achille Pinelli, Giovan Battista Falda, Giuseppe Vasi per le stampe e le incisioni; Antoine Jean Baptiste Thomas ed Ettore Roesler Franz per la pittura; Trilussa e Giuseppe Gioachino Belli per la poesia.




Il Gregorovius, nella sua opera “Passeggiate Romane” racconta come da Piazza San Giovanni a Santa Croce in Gerusalemme era tutto un “gioioso baccanale”: si accendevano falò intorno ai quali si ballava, si beveva e si gozzovigliava; successivamente al fuoco si sostituì l’acqua e si prese l’usanza di bagnarsi, nella notte di San Giovanni, dentro la fontana che nella omonima piazza era stata eretta nel 1588, proprio sotto l’obelisco. Successivamente, verso l’inizio dell’800, presero il sopravvento i fiori, le lumache, la musica ed i fuochi d’artificio. Forse, però, si esagerò sempre un po’, tanto che nel 1753 l’autorità ecclesiastica proibì “A qualsiasi persona dell’uno o dell’altro sesso, che in detta notte veruno ardisca accostarsi alle vasche, ai rigagnoli, alle fontane togliendosi le brache ed accucciandosi sull’erba, pena gli uomini tre tratti di corda da darsi in pubblico e scudi 50 di multa, e per le donne tre colpi di frusta a posteriori in pubblico, e si per gli uni come per gli altri senza alcuna remissione”. Nel 1744, alla constatazione del Cardinale Vicario che evidenziava che “…sotto lo specioso pretesto di prendere il bagno, uomini e donne unitamente, si recavano fuori le Porte, in luoghi reconditi, celandosi tra i cespugli o dietro le siepi e liberamente compiono atti osceni…”, papa Benedetto XIV°, papa “illuminato”, rispose: “Nasca quel che ha da nascere: nascerà qualche atro suddito allo Stato”. In seguito il governo proibì, nel 1872, i festeggiamenti notturni nella piazza. Fino alla seconda metà del ‘900 in Via Merulana, da Santa Maria Maggiore al Laterano, ed in Via Appia fino Piazza dei Re di Roma, si allestivano delle vere e proprie “tavolate comuni”, alle quali i romani si accomodavano per bere vino “Cannellino” o "Romanella" o per mangiare piatti di pasta, porchetta di Ariccia, o le famigerate lumache, le quali erano di diverse qualità. La tradizione delle lumache risale addirittura al tempo degli antichi Romani, visto che anche Varrone, nel suo trattato “Cochlearia” ne descriveva l’allevamento: le lumache erano custodite in luoghi ombrosi ed umidi, circondati da fossi o muri, e venivano nutrite con insetti, vermi, foglie grasse e vino (!!), così da farle diventare belle grosse e di ottimo sapore. Se ne conoscevano, già a quei tempi, molte varietà: Illiriche, Siciliane, Liguri, delle Baleari, ma soprattutto quelle di Capri erano le più ricercate. Nel libro “ROMA A TAVOLA. ALMANACCO DELL’ACCADEMIA ITALIANA DELLA CUCINA” Ed. Colombo c’è un ricordo di Luigi Carnacina che ci da la ricetta per cucinare al meglio le lumache: “Le migliori lumache vengono raccolte nelle vigne, ma noi ci accontentiamo di quelle dell’Acqua Acetosa. Mettere in un cesto dove l’aria circola le lumache, qualche foglia di lattuga, della mollica di pane bagnata in acqua e ben strizzata con le palme delle mani: farle spurgare almeno per circa 48 ore. Gettarle in un catinella, aggiungere una manciata di sale, un buon bicchiere di aceto, mescolarle con le mani per 5 minuti per farle spurgare bene: cacceranno abbondante schiuma. Dopo lavarle per un paio di volte con acqua, sale e aceto; compleare il lavaggio con abbondante acqua fredda. Mettere le lumache in una casseruola con acqua fredda, farla intiepidire piano piano sopra un calore moderato. Mano a mano che l’acqua prende calore le lumache cacciano prima le cornette poi i loro corpi; intensificare il calore, far prendere l’ebollizione, seguitare la cottura per una diecina di minuti. Sgocciolarle, gettarle in una catinella riempita d’acqua fredda, rinfrescarle. Durante la cottura delle lumache preparate la salsetta: mettere in un tegame di terracotta dell’olio e qualche spicchio d’aglio schiacciato; a imbiondimento dell’aglio aggiungere qualche filetto d’acciuga ben dissalato, pestato a purea nel mortaio, e quasi nel medesimo tempo una certa quantità di polpa di pomodoro fresca, tritata con un forchetta; condire con sale e pepe abbondante, o peperoncino, un poco di mentuccia romana trita. Cuocere a calore moderato per una ventina di minuti, poi gettarvi le lumache e qualche cucchiaiata d’acqua se la salsa è troppo densa. Seguitare la cottura per una ventina di minuti molto moderatamente, a tegame coperto, mescolando qualche volta. Servire in scodelle con stecchini e fette di pane casereccio”.

Io stesso ricordo che il gestore dell'Osteria da Saturno (in Circonvallazione Appia, all'Alberone), che abitava nel mio palazzo, metteva a spurgare le lumache nel giardino condominiale, aiutato dal portiere "er Sor Emilio", per una intera settimana. Le prime lumache della mia vita le ho mangiate proprio da lui... Le lumache erano viste talmente con tanta affettuosità dai romani che spesso il termine “Ciumachella” era un vezzeggiativo tra i pià usati per la propria innamorata (“Ciumachella mia”, Ciumachella de Trestevere”…): termine che doveva indicare la propria donna “che stava sempre in casa o che non doveva uscire con altri se non con il suo innamorato”.
Le osterie servivano le lumache, cotte con pomodoro, mentuccia e peperoncino, fino a notte alta, ma c’era anche chi se le portava già cotte da casa, tanto che spesso le “fraschette” (piccole osterie di campagna) preferivano accogliere i “fagottari”, portandogli non pietanze cucinate ma solo da bere (unitamente a fave, pecorino, panzanelle e bruschette, alici dissalate, olive, salumi… tutti alimenti che, ovviamente, dovevano mettere una gran sete agli avventori), risparmiando all'oste l’onere della cucina.
Nei giorni precedenti San Giovanni la Via Tuscolana e l’Appia erano letteralmente invase da carretti che trasportavano caratelli di vino dai Castelli Romani a Roma.

Un tipico carretto da vino

Sempre Zanazzo scrive: “E giacchè ssemo sur discorzo der vino, io dico che in gnisuna parte del monno se bbeve tanto vino come a Roma”. Tesi avallata dall’antico detto “PPE’ DISPETTO DER DIAVOLO… DIECI FOJETTE A PPAVOLO” (la "fojetta", come il “tubo” era il termine utilizzato per indicare un tipo di fiaschetto da vino, così come il "Barzilajo" era una bottiglia panciuta della capacità di due litri: doveva il suo nome all’onorevole Barzilai che, per rastrellare voti nella periferia e nella campagna romana offriva grandi bevute alle osterie agli elettori… ed il popolo ricambiò dando il suo nome al fiasco). Altre osterie più “evolute” potevano però proporre ai clienti una gran quantità di piatti di pasta o minestre: quelle che andavano per la maggiore erano la cacio e pepe, il brodetto di pesce, la zuppa di cocuzze, il pancotto, la pasta e broccoli e le varie minestre, a base vegetale, con il soffritto di prosciutto, cipolla, aglio e olio, cui si aggiungevano pomodori a pezzetti ed abbondante acqua e, una volta cotto il tutto, pasta spezzettata o cannolicchi con pepe e pecorino proprio alla fine. A queste si univano i lessi di carne, gli stufati, le polpette al sugo, gli spezzatini mentre altri piatti immancabili erano la frittata di papate, con pomodoro e cipolla, i carciofi alla romana o “alla Giudia” mentre storica pietanza romana era il fritto, o “li Pezzetti”: un fritto in pastella composto da carciofi, zucchine, patate, cervello d’abbacchio, animelle d’abbacchio, di mozzarella, cavolfiore e mele. Addirittura, in occasione delle feste maggiori (ma nelle stradine del centro della città anche giornalmente) fino alla seconda guerra mondiale, in strada apparivano i “friggitori” con grandi calderoni pieni di olio bollente). In un’opera di Alessandro Ruffini “Osterie e trattorie esistenti a Roma nel 1854” si stima ce ne fossero a quel tempo ben 633. La cucina romana è sempre stata una cucina povera, i cui ingredienti principe erano frattaglie, coratella, coda… tutti scarti di tagli più prelibati, riservati ai nobili. Il tutto veniva condito con un gran numero di erbe e verdure, l’unica cosa che non mancava al popolino.
Nel 1891, oltre le sfilate dei carri allegorici ed alle gare di giochi popolari, il Comitato della Primavera Romana, bandì il Primo Concorso Canoro della Canzone Romana, che venne organizzato da Piero Cristiano, proprietario di un negozio di musica ed editore. La festa di San Giovanni era un avvenimento importante (soprattutto per le coppiette, in quanto era una delle poche occasioni in cui i fidanzati potevano farsi vedere in compagnia l’uno dell’altra in pubblico) e fece da notevole cassa di risonanza alla canzone tradizionale romana, un'evoluzione degli stornelli da osteria: tanto che già dalla prima edizione il Festival riscosse un clamoroso successo.




Porta San Giovanni, dentro e fuori le mura

Subito fuori delle mura di San Giovanni iniziava la Via Appia Nuova che, in occasione della festa, illuminata da lumini di carta colorata alle finestre delle abitazioni e delle osterie, correva per chilometri nella campagna romana, fino ad unirsi, ai Cessati Spiriti (oggi Largo dei Colli Albani), all’Appia Antica che correva fino a Brindisi. Il nome originale dei "Cessati Spiriti" si deve al fatto che in quel luogo, si tramanda, Numa Pompilio incontrasse la Ninfa Egeria (presso la fonte che dalla ninfa prese poi il nome); fino al ‘900 quel luogo, evocatore di eteree presenze, fu chiamato “degli Spiriti” e, successivamente dei “Cessati Spiriti”, nella zona compresa tra l’Arco di Travertino” ed il sito delle Tombe Latine. Lungo l’Appia era tutto un fiorire di fraschette ed osterie: la prima che si incontrava, sulla destra, era “Faccia Fresca”; dopo duecento metri, dalla parte opposta, c’era, all’incrocio con la Via Tuscolana, “Baldinotti” (il Marchese Baldinotti aveva proprio in quella zona dei poderi); proseguendo si incontravano poi quella di “Bella vista”, l’Osteria della Sòra Sofia a Ponte Lungo, le fraschette del “Sor Capanna”, del “Sor Pio”, dell’ “Arco de Travertino” e quella della “Vedova Scarpone”, nell’attuale Via delle Cave, quella dei “Cessati Spiriti” fino ad arrivare a “L’uva de Roma”, all’attuale Quarto Miglio. Tutte le fraschette e le osterie avevano le “incannucciate” ricoperte di edera, campanelle e gelsomini ed immancabile era la fontana con l’abbeveratoio per i cavalli, in cui si metteva anche in fresco il cocomero. Le pietanze portate dai fagottari (il “fagotto” altro non era se non una tovaglia, spesso a quadrettoni, annodata per i quattro angoli) erano quelle canoniche: il tegame di coccio con gli involtini al sugo, le fettine panate, la pagnotta per fare la bruschetta e “la scarpetta” con il sugo, l’abbacchio arrosto con le patate, la frittata. Molti osti, di cui Faccia Fresca era forse il più conosciuto, portavano al tavolo soltanto fave appena raccolte nel proprio campo e l’immancabile “pecorino piccante con la lacrima”, oltre l’immancabile fiasco di Cannellino, un vino frizzantino che inevitabilmente dava i suoi effetti. A fine pasto sbucavano improvvisamente gli “Sbuciapertutto”, un gruppetto di musicanti muniti di mandolini o chitarre, alle cui musiche le comitive iniziavano a ballare il “Saltarello”.
Tornando alla Canzone Romana, proprio da “Faccia Fresca” si sarebbe dovuto svolgere il primo festival ma la partecipazione di curiosi fu talmente massiccia ed inaspettata che causò il crollo della terrazza dell’osteria (sulla quale avevano preso posto anche un pianoforte ed alcune chitarre); la manifestazione fu quindi spostata, la domenica successiva, al “Grande Orfeo”, la sala teatrale che sorgeva davanti il Viminale. Tra le 14 canzoni in gara vinse il premio di “cento lire” la canzone di Nino Ilari con musica di Alipio Calzelli “Le Streghe”, cantata da Leopoldo Fregoli (che proprio in questa occasione iniziò la propria luminosa carriera).



Visto il grande successo della neonata manifestazione l’anno successivo si occupò di organizzarla l’editore Edoardo Perino, che aveva già fondato il noto giornale “Rugantino”, diretto da Giggi Zanazzo.

Pubblicità "occulta" ?

Nelle successive edizioni, specialmente in quella del 1893, trovarono la fama diverse canzoni, tra le quali: "Affaccete Nunziata", “Er bacio”, “Pe’ San Giuvanni”, poi “Nina si voi dormite” (vincitrice nel 1901), “Barcarolo Romano” (vincitrice nel 1926), e “L’eco der còre”.









Una curiosità ha per protagonista Trilussa: nel 1893, sulle colonne del Messaggero, nella rubrica “Valigia”, il poeta aveva sparato a zero contro la canzonetta romanesca, derivante dagli stornelli popolari con un sonetto che iniziava così:

Méttece San Giuvanni , Faccia Fresca,
la spighetta, er garofeno coll’ajo,
er bacetto, le streghe, quarche sbajo,
e fai la canzonetta romanesca.

Ma una quarantina d’anni dopo, nel 1931, Trilussa fu “punito” in quanto fu designato a far parte della Commissione giudicatrice delle canzoni, assieme a Petrolini, Folgore e Nataletti. Il 1893 fu un anno storico anche perché, per la prima volta, venne organizzata la sfilata dei carri allegorici, che sfilarono per Via Nazionale, Santa Maria Maggiore, Via Merulana e sul piazzale di San Giovanni, praticamente coinvolgendo tutta la città di Roma. Le guerre di inizio ‘900 (grande successo ottenne “Faccetta nera” in occasione della Prima Guerra Mondiale) portarono grandi difficoltà sociali ed il festival, così come la festa stessa, ne risentirono. Successivamente i ritmi portati dagli americani soppiantarono gli stornelli e le canzonette romane, fatto testimoniato da una delle ultime canzonette:

Nannaré, perché te sei innamorata
De ‘sta musica americana?
Ma perché te sei scordata che sei romana
E li stornelli nun canti più?

L’ultimo festival della Canzone Romana si svolse nel 1931 ma nel 2007, nel teatro all’aperto di Villa Lais, si svolgerà la terza edizione del rinnovato Festival, con l’assegnazione alla canzone vincitrice del Premio Romolo Balzani



A chiudere la festa di San Giovanni, al ritorno dalla scampagnata “for de porta”… “Li Botti”, come vengono chiamati a Roma i fuochi d’artificio: il piazzale di San Giovanni, fino ai primi anni del ‘900, era tutto un tripudio di razzi, fontane luminose e le famose “girelle”, girandole montate a rappresentare, con ingegnose costruzioni luminose, figure o mestieri, come il carrettiere a vino o l’arrotino.

Quanti ricordi a San Giovanni......