11 giugno 2008

PERSONAGGI ROMANI: I CARBONARI TARGHINI E MONTANARI

Strettamente legata a quella di Mastro Titta è la vita o, meglio, la morte, di Angelo Targhini e Leonida Montanari, da lui giustiziati a Porta del Popolo il 23 novembre 1825 per aver vanamente tentato di uccidere un carbonaro come loro ma considerato (a ragione ?) traditore e spia del papa-re.


In effetti nessuno dei due personaggi (tre con Mastro Titta) ebbe i natali a Roma ma sono ugualmente entrati
di buon diritto nella storia pre-risorgimentale della città, presenza tutt’oggi testimoniata dalla targa affissa a loro ricordo, proprio davanti la chiesa di Santa Maria del Popolo, che così recita:

"ALLA MEMORIA DEI CARBONARI ANGELO TARGHINI E LEONIDA MONTANARI CHE LA CONDANNA DI MORTE ORDINATA DAL PAPA SENZA PROVE E SENZA DIFESA IN QUESTA PIAZZA SERENAMENTE AFFRONTARONO IL 23 NOVEMBRE 1825
L'ASSOCIAZIONE DEMOCRATICA G.TAVANI ARQUATI PER VOLONTA' AMMONITRICE DI POPOLO QUI POSE
2 DI GIUGNO 1909
"



Angelo Targhini era, figlio di un cuoco bresciano di papa Pio VII°, mentre Leonida Montanari, di professione chirurgo, “…era bello come uno de’ più belli Italiani. Aveva il cuore pieno di gentilezza, d’onore, d’amore della patria", così lo raffigura Edoardo Fabbri (drammaturgo e letterato cesenate dell’800), era nato a Cesena (qualcuno dice sia nato a Forlì) il 26 aprile 1800 da una famiglia di povere origini;




a soli 24 anni aveva già una buona esperienza nel campo medico, infatti si dedicò allo studio della chirurgia prima a Bologna, poi a Roma, grazie alla protezione del principe Chiaramonti e, una volta laureatosi, si trasferì a Rocca di Papa per esercitare la professione medica. Venne, dopo poco tempo, spinto dal suo carattere “modernista” e rivoluzionario, a contatto con la "Carboneria", a cui aderì con il proposito di portare il popolo, cui si sentiva di appartenere, al risveglio del sentimento nazionale contro l'autoritario ed opprimente governo del Papa-re.
Nel 1825 Targhini e Montanari furono accusati dalle autorità papaline di un attentato (come poi vedremo) ordito ai danni di Filippo Spada, detto Spontini, un carbonaro che aveva (presumibilmente) tradito la propria "vendita" trasformandosi in spia ai servizi del papato. Nessuna prova materiale era stata raccolta contro i due, se non una dichiarazione del sopravvissuto, la cui veridicità non è mai stata dimostrata in toto, ma Montanari, come ricorda lo storico Premuti , "…sapendosi innocente, nulla fece per sottrarsi alla giustizia". Eppure fu addirittura allestito un tribunale speciale, con il chiaro compito di condannare i due sospettati senza dargli alcuna possibilità di difendersi. Così, i giudici emisero una sentenza di pena capitale, cosa che mise in subbuglio l’intero popolino romano che, comunque, essendo disorganizzato e timoroso delle dure repressioni che sarebbero seguite ad una rivolta, venne ben controllato dalle autorità papali.
La Carboneria (che esiste tutt'oggi come movimento apolitico e apartitico, e che si prefige lo scopo di "difendere l’Unità nazionale, col pensiero e con l’azione non violenta; adoperarsi affinché il martirio di tanti patrioti del Risorgimento non venga calpestato e dimenticato; opporsi con la forza della ragione e del dialogo a ogni spinta disgregatrice - Fonte dal sito http://www.carboneria.net/) è
una società segreta fondata a Napoli durante i primi anni dell'Ottocento su valori patriottici e liberali. Il nome "Carboneria" derivava dal fatto che i settari dell'organizzazione avevano tratto il loro simbolismo ed i loro rituali dal mestiere dei carbonai, ovvero coloro che preparavano il carbone e lo vendevano al minuto. Come in ogni società segreta, chi si iscriveva alla Carboneria non ne doveva conoscere tutte le finalità fin dal momento della sua adesione: gli adepti erano infatti inizialmente chiamati "apprendisti" e solo in seguito diventavano "maestri", e dovevano impegnarsi a mantenere il più assoluto riserbo, pena la morte. L'organizzazione della Carboneria, di tipo gerarchico, era molto rigida: i nuclei locali, detti "baracche", erano inseriti in agglomerati più grandi, detti "vendite", che a loro volta dipendevano dalle "vendite madri" e dalle "alte vendite". Anche le sedi avevano naturalmente dei nomi in codice. Poco altro si conosce con certezza, ed il fatto che gli storici non conoscano bene le varie organizzazioni settarie dipende, ovviamente, dalla necessità per gli adepti di mantenere il più stretto riserbo, di non affidare a scritti o documenti le tracce di un'attività che, se scoperta, poteva portare al carcere o al patibolo. Gli iscritti alla Carboneria aspiravano soprattutto alla libertà politica ed a un governo costituzionale: appartenenti in gran parte alla borghesia e alle classi sociali elevate, si erano divisi in due settori o logge: quella civile, destinata alla protesta pacifica o alla propaganda, e quella militare, destinata alle azioni di guerriglia. Aderirono alla setta famosi personaggi dell'Italia risorgimentale: Silvio Pellico, Giuseppe Mazzini, Ciro Menotti, Piero Maroncelli, Napoleone Luigi Bonaparte. Nata inizialmente come forma di opposizione alla politica filo-napoleonica di Gioacchino Murat, la Carboneria fece successivamente proseliti in Francia ed in Spagna, puntando sulle libertà politiche e sulla concessione di una costituzione nei paesi d'Europa. Così la Carboneria si diffuse anche nel nord Italia, soprattutto in Lombardia ed in Romagna. Il movimento però non aveva un’organizzazione profonda, essendo formato da piccoli gruppetti sparsi nel territorio italico, tanto che alcune delle rivendicazioni principali dei carbonari risultavano quanto meno “lacunose”: ad esempio i carbonari si dichiaravano favorevoli all'indipendenza italiana, ma non accennavano minimamente all'eventuale governo che avrebbe dovuto guidare l'Italia libera. In effetti i Carbonari non erano, per partito preso, “contro” il papa ma contro il sistema politico-economico, degeneratosi nel corso dei secoli, al cui capo era il “papa-re”: essi mostravano una fede sincera nella religione di Gesù ma liberata di tutti gli elementi estranei, che i teologi vi avevano introdotto nel corso di diciotto secoli. Essi erano allo stesso tempo "riformatori politici e religiosi". Il credo Carbonaro proponeva un ritorno ai valori di base della cristianità - umiltà, povertà volontaria e libertà di coscienza - puntando il dito contro l'arrogante ricchezza del Vaticano ed il suo imperialismo politico. Ai nostri giorni i pochi paesi laici europei sono tutti delle repubbliche, ed i Carbonari furono dei repubblicani che non videro mai i frutti dei loro sforzi e sacrifici.
Sotto il pontificato del "papa-re” Leone XII° gruppi rivoluzionari e liberali dettero vita a ripetuti tumulti e proteste di popolo (celebre fu la voce del popolo espressa attraverso poesie in rima su dei fogli lasciati nei pressi della statua soprannominata di “Pasquino”, appena dietro Piazza Navona).


Tra i gruppi più attivi furono proprio i “carbonari”, temuti dal popolo contrastante e dalle autorità papaline. Filippo Spada "Spontini", liberale di nobile famiglia, da tempo sembrava fare il doppio gioco contro i suoi stessi compagni carbonari, condannandone a volte gli atteggiamenti eccessivamente ribelli; questi si insospettirono ulteriormente vedendolo confabulare con alcuni esponenti della chiesa e sostenitori della sua famiglia. Spontini non era il solo ad essere sospettato: in quel periodo, infatti, i carbonari furono vittime di molti tradimenti "intestini" che causarono diversi arresti e condanne nei confronti di attivisti antipapali, alcuni dei quali anche di spicco nel movimento carbonaro. Questo portò ad un clima di nervosismo e diffidenza all’interno del movimento stesso, poichè la "vendita carbonara" organizzata in Roma (che contava circa 70 aderenti) aveva subìto delle defezioni e si sospettavano ulteriori tradimenti in corso. Un informatore avvertì, anzi tempo, il sospetto progetto di denuncia da parte dello Spontini alle autorità papaline e la decisione di punire il traditore fu immediata, anche perchè a quel tempo, a Roma, i coltelli venivano utilizzati in pratica quotidianamente. Il compito fu affidato al modenese Angelo Targhini. "Angiolo" (come veniva chiamato a Roma) era giovanissimo, non superava i vent’anni. Figlio di un cuoco di Brescia, era spregiudicato e fanatico delle idee carbonare. Altre volte era stato utilizzato per simili compiti ed era ritenuto alquanto affidabile dai compagni e dai superiori. Senza paura delle eventuali conseguenze dei suoi gesti non dava conto a ciò che gli sarebbe potuto succedere: credeva nella libertà e senza indugio eseguì l’incarico. Mastro Titta, nelle "Memorie di un carnefice scritte da lui stesso", così racconta lo svolgersi dei fatti: “...Il 19 luglio 1825, decapitai in Ancona Casimiro Rainoni, il quale in un impeto di bestiale furore aveva ucciso con una pedata, nelle parti vitali, un suo garzone. E dopo quattro mesi di riposo decapitai al Popolo Leonida Montanari e Angiolo Targhini, due cospiratori contro il governo di Sua Santità, appartenenti alla setta dei Carbonari, i quali avevano gravemente ferito un loro compagno, tale Spontini, sospettando che li avesse traditi e denunziati all’autorità. Di questa esecuzione si fecero di molti discorsi in Roma, perché la tenebrosa associazione alla quale appartenevano incuteva spavento alla popolazione di Roma, onesta, timorata e fedele al Papa. Ma benché si sussurrasse di tumulti ed insurrezioni preparate dai loro confratelli, per sottrarli al patibolo, la tranquillità, grazie alle saggie ed energiche disposizioni adottate dal governo, non fu menomamente turbata. Ecco come si svolsero i fatti. Un affigliato, certo Angiolo Targhini, romano (qui Mastro Titta sbaglia essendo Targhini di origini bresciane e nato a Modena), fu incaricato dell’operazione. Era un popolano d’animo deliberato e di braccio sicuro. Una sera Targhini passa dalla farmacia Peretti e vedendo lo Spontini sulla porta, l’invita a seguirlo, dicendo dovergli parlare di cosa grave. Spontini accondiscende e lo segue. Svoltano per il vicolo di Sant’Andrea buio e deserto: Targhini si guarda attorno un momento e, non vedendo nessuno, trae un pugnale dalla tasca in petto dell’abito e lo infigge in seno allo Spontini dalla parte del cuore. Spontini cade e Targhini si allontana con rapido passo con un altro che l’attendeva. Spontini non era morto. Chiama aiuto; accorrono verso di lui due carabinieri pontifici che pattugliavano in quei pressi e lo trovarono seduto per terra, col capo appoggiato alla colonnetta, che stava sotto la cappelletta della Madonna, illuminata dalla lampada, sull’angolo del palazzo. Esaminatolo lo trovano ferito e vanno alla farmacia Peretti a chiedere se c’era qualche medico, per aiutare il malcapitato e giudicare se era trasportabile. Esce fuori il chirurgo Leonida Montanari di Cesena e s’avviano verso il ferito, sempre al medesimo posto. Montanari tira fuori la busta chirurgica, vi prende uno specillo (un ogetto chirurgico per esaminare ferite da taglio), si mette a specillare la ferita e non la trova mortale. Ma uno dei carabinieri che osservava attentamente il Montanari, si accorge che collo specillo tentava di approfondire la ferita. Non gliene lascia il tempo; gli toglie lo specillo e gli lega i polsi con un buon paio di manette. Poi, chiamata man forte, condussero il Leonida Montanari alle carceri e Spontini alla Consolazione, ove lo guarirono della sua ferita. (Dopo la testimonianza di Spontini contro i due…) Fu eretto il processo contro il Targhini, del quale il ferito declinò il nome, accusandolo del fatto, e che venne tosto arrestato e contro il Montanari, che aveva tentato di compir l’opera, e, quantunque opponessero i più sfrontati dinieghi, furono condannati dalla Sacra Consulta alla decapitazione. Si temeva che per l’esecuzione, gli altri settari volessero tentare qualche colpo audace, e furono prese tutte le disposizioni opportune. Quanto a me, sebbene avessi ricevuto una quantità di lettere anonime, che mi minacciavano di morte se avessi fatta l’esecuzione, ho compiuto il mio dovere senza esitanza. Era uno spettacolo imponente. Piazza del Popolo era gremita di gente, come non la vidi mai. Quando vi arrivammo colla carretta i soldati stentarono ad aprirci il varco. Giunti sotto il palco, che avevo eretto durante la notte, col concorso del mio aiutante, Targhini prima e Montanari poi scesero colla maggior franchezza di questo mondo, e ne salirono i gradini circondati dai confortatori, saltellando quasi. Tutti i tentativi per indurli al pentimento ed alla confessione riuscirono vani. — Non abbiamo conto da rendere a nessuno: il nostro Dio sta in fondo alla nostra coscienza — rispondevano invariabilmente. Avevo avuto ordine da Monsignor Fiscale di far presto e i confortatori, a quanto credo, lo stesso. Quindi non si perdette altro tempo. Li legai solidamente ai polsi, perché avevano rifiutato di lasciarsi bendare, poi spinsi innanzi Angelo Targhini, che porse il capo sorridendo alla ghigliottina e in un secondo fu spedito. Leonida Montanari mi salutò beffardamente dicendomi: «Addio collega.» e fece poi come il Targhini e come il Targhini lo spedii al Creatore. Ci fu un subitaneo movimento nella folla; pareva volesse scoppiare un applauso. Ma la vista della forza armata la contenne e non si ebbe a deplorare il benché menomo incidente”. Morendo, Montanari si dichiarò al popolo "innocente, framassone ed impenitente". Furono sepolti entrambi presso il Muro Torto (a pochi metri oltre Porta del Popolo), nella terra sconsacrata, “fuoriporta”, dove erano sepolti i suicidi, i ladri, i vagabondi e le prostitute. La condanna di Targhini e Montanari fu quindi condizionata soprattutto dalla loro appartenenza alla Carboneria. Come detto, nei giorni che seguirono la condanna molte furono le azioni di protesta, non solo dei rivoluzionari: addirittura dei frati, uomini di chiesa e anche dei nobili di celata appartenenza carbonara, cercarono di fermare quella condanna. Ma nulla fu fatto con decisione: decisivi, in negativo, furono l’eccessivo torpore del popolo, la sua paura di perdere ciò che in fondo non aveva mai avuto ma, soprattutto l’ignoranza che gli veniva imposta per paura che migliaia di persone potessero aprire gli occhi, impotenti, quindi, per loro stessa volontà. D’altronde, come vedremo poi, anche Nino Manfredi, “ciabattino/Pasquino”, pur impersonando la segreta voce della coscienza del popolo romano nel filmNell’anno del signoredi Luigi Magni, rivolgendosi ai due carbonari gli dice: “...voi fate a rivoluzione, io fo il calzolaro... ognuno se fa l'affari sua” ….
Targhini e Montanari, rivoluzionari, carbonari e liberali, che proprio per quel popolo "pecorone" si erano sacrificati, per nessun motivo vollero pentirsi, malgrado il pentimento avrebbe potuto portare ad un cospicuo alleggerimento della pena. I due giustiziandi rifiutarono la benda e per l’ennesima volta rifiutarono il pentimento. Al momento dell’esecuzione il Targhini, sorridente e sprezzante nei confronti della morte, disse: Libertà e prosperità. Nel 1969, il regista Luigi Magni, traspose la vicenda di Targhini e Montanari nel bel film “Nell’anno del Signore” (il primo della sua "trilogia Romano/risorgimentale", gli altri due sono "In nome del Papa re" e "In nome del popolo sovrano") in cui ci presenta un ottimo e veritiero spaccato della corrotta società romana dell'Ottocento e per il quale Nino Manfredi vinse il David di Donatello 1970 come migliore attore (interpretando il ciabattino Cornacchia/Pasquino, che all'uccisione dei due riassume tutta la vicenda in due sole, geniali ma semplici, parole “Bònanòtte popolo”…..). Possiamo affermare che l'uscita del film corre parallela alla vicenda risorgimentale visto che anche negli anni di uscita del film l‘opinione pubblica era ancora in parte in balia dellosguardo vigile del Vaticano (e della D.C.): infatti racconta, con molta ironia, un tipo di storia anticlericale che non era mai stata affrontata dal cinema perché “dava fastidio”. Nel film viene infatti sottolineato l'atteggiamento della Santa Sede nei confronti delle comunità ebraiche, e come, per impedire rivolte e cospirazioni di popolo, venne istituito in città il coprifuoco dopo il tramonto, malgrado per quell’anno (1825) il papa avesse indetto l’Anno Santo. Il regista del film Luigi Magni così dichiarò in un’intervista: “… mi venne naturale fare questo film; racconto queste storie perché sono romano, perché sono nato in via Giulia, perché al piano sopra al mio abitava un monsignore, perché appena uscivo di casa, sulla destra, c’era la chiesa della Buona Morte coi teschi che funestarono i sogni della mia infanzia e perché queste sono le mie radici. Non ce l’ho con la Chiesa: mi piacciono la liturgia, il gregoriano, le feste assurde e macabre, i costumi, l’incenso, il barocco… Sono però spietatamente nemico di tutto questo quando contamina la mia vita di cittadino, e siccome per noi italiani la Chiesa ha significato un ritardo secolare rispetto agli altri Paesi europei (all’unità d’Italia saremmo potuti arrivare ai tempi di Federico di Svevia e di Manfredi, se non si fosse messo di mezzo il Papa), allora, ecco, non amo questo tipo di Chiesa, soprattutto la Chiesa politica. La mia documentazione è spontanea, sono fatti di casa mia, che mi hanno raccontato quando ero bambino… La mia era una famiglia romana vecchissima, mio nonno era papalino e mi mandava a prendere ogni giorno “L’Osservatore romano”, non credo abbia mai letto nessun altro giornale in vita sua. Apparteneva alla Confraternita di San Vincenzo, era “fratellone”, come si dice qui, e quindi c’è qualcosa intorno a me che puzza di sacrestia. Si vede che ho una certa tendenza al martirologio laico perché "Nell’anno del Signore" era la storia di Targhini e Montanari, due martiri carbonari decapitati dai preti. A scuola, quando ci insegnavano il Risorgimento, abbiamo studiato martiri molto meno illustri di questi, ci hanno raccontato la storia soltanto di quelli di Belfiore, di Silvio Pellico. Invece, questi martiri anticlericali romani non li conosce nessuno, nessuno te li insegna perché, evidentemente, noi dobbiamo ricordarci bene i nomi di quelli che sono stati ammazzati dagli austriaci ma di quelli fatti fuori dai preti no! Beh, ci fosse stato qualcuno che abbia riconosciuto il pallido merito di questo cinematografaro che faticosamente cerca di riproporre, sia pure attraverso vicende molto romanzate, fatti realmente accaduti e di indicarne le responsabilità! Macchè, non se ne è accorto nessuno. Qui a Piazza del Popolo, appiccicata in alto, vicino alla caserma, e postavi all’inizio del secolo da un’associazione libertaria, c’è una lapide di Targhini e Montanari che vi furono decapitati nel 1825. La gente non ci credeva, e quando usciva dal cinema faceva la fila per andare a vedere, a constatare. I due carbonari, decapitati, vennero sepolti ai piedi del “Muro Torto”, dove vi era un cimitero sconsacrato in cui venivano seppelliti ladri, vagabondi e donne di malaffare e si narra che ogni notte i fantasmi dei due personaggi vaghino sotto le mura con la propria testa in mano dando i numeri da giocare al lotto ai coraggiosi che sostengano il loro sguardo. I loro spiriti sono ancora alla ricerca di vendetta contro chi li condannò alla pena eterna per cui non ci si deve meravigliare che in quel tratto le automobili accusino, spesso, strani guasti o, inspiegabilmente, si ritrovino senza benzina. Inoltre alla sommità delle mura sono state poste delle reti per evitare gesti insani: un gran numero di aspiranti suicidi sceglievano proprio le mura che da Villa Borghese si affacciano sulla strada per porre fine alla loro esistenza. Anche ciò pare che fosse (e sia) dovuto al malefico influsso di quegli spiriti inquieti.
Gigi Magni è forse l’autore che più si è occupato di far conoscere le perversioni del potere clericale nella Roma dell'Ottocento. Da grande studioso di Roma e delle sue figure, aveva già prestato la sua collaborazione alla messa in scena di un celebre testo teatrale del 1968: la commedia musicale "Rugantino", di Garinei e Giovannini, ambientata nello stesso periodo in cui è ambientato il film, intorno al 1830. In Rugantino si era al principio del pontificato di Leone XII°, e si rivedeva in azione il boia Mastro Titta, un oste (in realtà il vero mestiere di Mastro Titta era venditore e riparatore di ombrelli) corposamente raffigurato sulla scena da uno strepitoso, bonario e paterno Aldo Fabrizi. La continuità tra la commedia teatrale di Garinei e Giovannini ed il film di Magni era assicurata dal protagonista, Nino Manfredi, che era Rugantino sul palcoscenico così come nel film impersonò Pasquino. Due personaggi resi nel migliore dei modi, due apparenti codardi che, alla fine, si riscattano mostrando tutto il loro coraggio e la loro voglia di libertà. Si, perché il ciabattino Cornacchia non è un infame, come crede la sua donna, l'ebrea Giuditta (Claudia Cardinale), ma è lui, che pur ha fatto credere di essere analfabeta per poter vergare le sue invettive senza essere sospettato, l’autore delle "pasquinate" contro il Vaticano ed il popolo pecorone.

06 giugno 2008

PERSONAGGI ROMANI: MASTRO TITTA, ER BOJA DE ROMA

Mastro Titta, il cui vero nome di battesimo era Giovanni Battista Bugatti (nato a Senigallia il 6 marzo 1779 ed ivi morto il 18 giugno 1869), fu il più famoso “boja” di Roma: benchè il suo vero mestiere fu quello di venditore e riparatore di ombrelli, si rese famoso come esecutore delle sentenze capitali dello Stato Pontificio dal 1796 al 1864 ed il suo personaggio ha ispirato diversi sonetti a Giuseppe Gioachino Belli ed è, inoltre, apparso in innumerevoli film ambientati nella Roma papalina e, soprattutto, nella commedia teatrale di Garinei e Giovannini “Rugantino”, nella quale venne magistralmente interpretato, tra i vari attori che vi si avvicendarono, soprattutto da Aldo Fabrizi, che gli donò un animo stranamente sensibile e paterno che contribuì a rendere il personaggio estremamente amabile, malgrado il lavoro svolto (sinceramente il Mastro Titta del palcoscenico è ben lontano dall'originale anche e soprattutto per il modo cui si apprestava a compiere la sua opera).

Come esecutore delle condanne capitali pontificie gli venne assegnato uno stipendio di 15 scudi al mese, oltre l’usufrutto di un alloggio ed un sussidio, pure mensile, di 5 scudi, poi convertito in gratifica di 20 scudi a Natale, Pasqua e Ferragosto. La sua “carriera” iniziò presumibilmente il 21 novembre 1796 e fino al 1864 effettuò ben 516 tra supplizi e condanne a morte. Il suo operato, con la descrizione degli atti criminosi compiuti dai condannati e la descrizione delle relative condanne è minuziosamente descritto nelle sue memorie autobiografiche, “Mastro Titta, il boia di Roma. Memorie di un carnefice scritte da lui stesso” (consultabile integralmente QUI), fino al 17 agosto 1864, quando papa Pio IX° gli concesse la pensione, all’età di 85 anni, con un vitalizio mensile di 30 scudi.

Mastro Titta fornì i suoi servigi non solo a Roma ma si recava anche nei territori dello Stato Pontificio, nelle diverse regioni per lo più del centro Italia, tanto che il suo “esordio” avvenne a Foligno, come lui stesso racconta nelle “memorie”: (vi anticipo che le righe seguenti sono particolarmente crude) “Esordii nella mia carriera di giustiziere di Sua Santità, impiccando e squartando a Foligno Nicola Gentilucci, un giovinotto che, tratto dalla gelosia, aveva ucciso prima un prete e il suo cocchiere, poi, costretto a buttarsi alla macchia, grassato (rapinato a mano armata ed ucciso) due frati. Giunto a Foligno incominciai a conoscere le prime difficoltà del mestiere: non trovai alcuno che volesse vendermi il legname necessario per rizzare la forca e dovetti andar la notte a sfondare la porta d'un magazzino per provvedermelo. Ma non per questo mi scoraggiai e in quattr'ore di lavoro assiduo ebbi preparata la brava forca e le quattro scale che mi servivano. Nicola Gentilucci frattanto, a due ore di notte, dopo avergli rasata la barba e datogli a vestire una candida camicia di bucato e un paio di calzoni nuovi, venne condotto coi polsi stretti da leggere manette, nella gran sala comunale, poiché volevasi dare la massima solennità all'esecuzione, stante la gravità del suo delitto, superiore a qualsiasi altro, trattandosi dell'uccisione di un curato e di due frati. La compagnia dei Penitenti Bianchi in abito di cerimonia, col cappuccio calato sul volto, schierata in due file, dalla porta all'estremità opposta, l'attendeva. In faccia alla porta era stato collocato un grande crocifisso con due confrati ai lati, e una schiera di religiosi, invitati a confortare il paziente. Il bargello e gli sbirri che lo conducevano, giunti alla porta della sala, bussarono e questa venne aperta. Quella scena commosse vivamente il Gentilucci, nondimeno entrò. Non appena ebbe fatti pochi passi il balio, aiutante del cancelliere, che ne porta gli emblemi, gli presentò una carta dicendogli: - “Nicola Gentilucci, io ti cito a morte per domattina”.
Il complimento poco gentile impressionò il condannato per modo che si lasciò sfuggire di mano la carta, e sarebbe caduto egli stesso svenuto, se non lo avessero sorretto il confessore e i confortatori, i quali lo condussero poi in una sala vicina, dove, sdraiato su di un materasso posto per terra, lo lasciarono dormire. Due ore innanzi lo spuntare del giorno susseguente lo svegliarono per fargli ascoltare la messa: il confessore gli parlò e gli impartì l'assoluzione e l'indulgenza “in articulo mortis” che il papa soleva concedere in tali circostanze. Confessato e comunicato, i confortatori gli apprestarono l'asciolvere. Gentilucci mangiò, bevve e si trovò alquanto rinfrancato d'animo. Nondimeno il confessore lo confortò ancora, assicurandolo che egli stava per avviarsi al cielo. Il condannato avrebbe forse desiderato di differire d'un altro mezzo secolo il viaggio, ma assicurato che non avrebbe che differita la sua felicità, si preparò a farlo allegramente. Mi presentai in quel mentre e togliendomi il cappello ossequiosamente offersi una moneta al Gentilucci, come di rito, perché facesse celebrare una messa per la sua anima.

Quindi, ricopertomi il capo, gli legai le mani e le braccia in modo che non potesse fare alcun movimento tenendone i capi nelle mie mani per di dietro. La Confraternita della Morte aperse il corteo. I confrati indossavano il loro saio ed avevano il viso coperto. Essi salmodiavano in tetro tono il “Miserere”. Venivano poi i Penitenti Azzurri, ultimi i Penitenti Bianchi ai quali era serbato il posto d'onore: cantavano pur essi nel medesimo tono il salmo stesso, seguendo gli uni agli altri, per non interrompersi, di guisa che quando gli uni cantavano gli altri tacevano. Dopo le confraternite v'erano i bargelli delle città vicine e gli sbirri in grande uniforme, e a questi teneva dietro il paziente, condotto pei capi della fune da me stesso, - umile ma pur raggiante in tanta gloria - circondato dai confortatori e dal confessore. Giunto sulla spianata ove doveva aver luogo l'esecuzione, Nicola Gentilucci fu fatto avvicinare ad un piccolo altare eretto di fronte alla forca e quivi recitò un'ultima preghiera. Poi, rialzatosi, lo condussi verso il patibolo a reni volte, perché non lo vedesse e fatto salire su una delle scale, mentre io ascendevo per un'altra vicinissima. Giunto alla richiesta altezza, passai intorno al collo del paziente due corde, già previamente attaccate alla forca, una più grossa e più lenta, detta la corda di soccorso, la quale doveva servire se mai s'avesse a rompere la più piccola, detta mortale, perché è questa che effettivamente strozza il delinquente. Il confessore e i confortatori intanto, saliti sulle due scale laterali, gli prodigavano le loro consolanti parole. Gli altri confortatori in ginocchio recitavano ad alta voce il Pater noster e l'Ave Maria e il Gentilucci rispondeva. Ma appena ebbe pronunziato l'ultimo Amen, con un colpo magistrale lo lanciai nel vuoto e gli saltai sulle spalle, strangolandolo perfettamente e facendo eseguire alla salma del paziente parecchie eleganti piroette. La folla restò ammirata dal contegno severo, coraggioso e forte di Nicola Gentilucci, non meno che della veramente straordinaria destrezza con cui avevo compiuto quella prima esecuzione. Staccato il cadavere, gli spiccai innanzitutto la testa dal busto e infilzata sulla punta d'una lancia la rizzai sulla sommità del patibolo. Quindi con un accetta gli spaccai il petto e l'addome, divisi il corpo in quattro parti, con franchezza e precisione, come avrebbe potuto fare il più esperto macellaio, li appesi in mostra intorno al patibolo, dando prova così di un sangue freddo veramente eccezionale e quale si richiedeva a un esecutore, perché le sue giustizie riuscissero per davvero esemplari. Avevo allora diciassette anni compiti, e l'animo mio non provò emozione alcuna. Ho sempre creduto che chi pecca deve espiare; e mi è sempre sembrato conforme ai dettami della ragione ed ai criteri della giustizia, che chi uccide debba essere ucciso. Un delinquente è un membro guasto della società, la quale andrebbe corrompendosi man mano se non lo sopprimesse. Se abbiamo un piede od una mano piagata e che non si può guarire, per impedire che la cancrena si propaghi per tutto il corpo, non l'amputiamo? Così mi pare s'abbia a fare de' rei. E benché innanzi nell'età e ormai vicino a rendere la mia vita al Creatore ed a comparire al suo supremo tribunale, non provo alcuna tema per ciò che ho fatto: se il bisogno lo richiedesse e le forze me lo con sentissero, tornerei da capo senza esitanza, perché mi considero come il braccio esecutore della volontà di Dio, emanata dai suoi rappresentanti in terra.”
Le due successive esecuzioni avvennero ad Amelia (“Trascorsi due mesi, meno otto giorni (da qui si risale al 21 Novembre dell’anno precedente per la data della sua prima esecuzione, che curiosamente aveva omesso di segnalare), dovetti ripetere l'ufficio mio e il 14 gennaio 1797 impiccai in Amelia, Sabatino Caramina che aveva commesso un omicidio per bestiale furore…” ed a Valentano, nel Viterbese, nella località Poggio alle Forche: «…e dopo settantaquattro giorni, il 28 marzo 1797, mazzolai e squartai in Valentano Marco Rossi che aveva ucciso suo zio e suo cugino per vendicarsi della non equa ripartizione fatta di una comune eredità. Stavano radunati in casa, quando si accese il litigio. Le due vittime cercarono di persuadere l'assassino dell'erroneità dei suoi calcoli e della irragionevolezza delle sue pretese. Ma il Rossi non volle ascoltar ragioni e d'un tratto afferrata una scure, spaccò la testa allo zio, poi ripetè l'azione contro il cugino, che gli cadeva ai piedi estinto, spruzzandolo col suo sangue. Rinsavito, ebbe orrore del proprio delitto e andò a consegnarsi al bargello. Gli fu eretto subito il processo e, condannato, mi venne consegnato per la esecuzione, che subì rassegnatamente, chiedendo perdono a Dio ed agli uomini del suo misfatto».
Il suo nomignolo, “Mastro Titta”, derivante chiaramente dal diminutivo del suo nome, Giambattista, fu poi esteso ai suoi successori tanto da divenire poi sinonimo di “boia esecutore”.
Alla figura di Mastro Titta si devono anche motti molto in voga nella Roma del tempo: “Quando Mastro Titta passa Ponte” o "Boia nun passa Ponte", per dire “ognuno se ne stia nel suo territorio”: infatti egli risiedeva nella zona cittadina vaticana, sulla riva destra del Tevere, e precisamente nel Rione di Borgo, in una sorta di domicilio coatto, al civico 2 di via del Campanile, e sulla sponda sinistra (quella dov’era la vera e propria città di Roma: precedentemente sulla riva destra del fiume erano confinati “pocodibuono”, ex reclusi, stranieri ed agricoltori) normalmente non poteva aver accesso, pena la propria stessa incolumità fisica. Il fatto di dover necessariamente “passare ponte” (dove il termine “ponte” indica più dettagliatamente Ponte Sant’Angelo) per eseguire i suoi offici, si deve al fatto che le esecuzioni capitali, tutte rigorosamente pubbliche (a scopo “educativo”, in quanto dovevano essere "esemplari" per il popolo), decretate in nome del papa-re, non avvenivano nel borgo papalino ma a Piazza del Popolo, o a Campo de' Fiori, o nella piazza della chiesa di San Giorgio al Velabro (dove Monicelli ha ambientato l'esecuzione del brigante Fra' Bastiano (interpretato dall'attore Flavio Bucci) nel film "Il marchese del Grillo"), quindi sulla sponda sinistra del Tevere. Di conseguenza la frase "Mastro Titta passa ponte" era quasi un passaparola popolare per rendere noto che in giornata sarebbe avvenuta l'esecuzione di una condanna a morte. Ed i ragazzini del popolo, quando lo intravedevano in strada, gli canticchiavano la filastrocca:

«Sega, sega, Mastro Titta,
'na pagnotta e 'na sarciccia;
un´a me, un´a te,
un´a mammeta che so´ tre».

Lo scrittore inglese Charles Dickens, uno dei personaggi che dettero vita a quella vera e propria “istituzione” denominata poi “Grand Tour”, durante il viaggio che compì in Italia fra il luglio 1844 ed il giugno dell'anno successivo, rimase molto colpito (ovviamente in negativo) da un'esecuzione cui assistì l’8 marzo 1845 in via de' Cerchi e che riportò sul suo libro “Lettere dall'Italia": “Un sabato mattina (l'otto marzo), qui un uomo venne decapitato. Nove o dieci mesi prima, aveva rapinato per strada una contessa bavarese diretta in pellegrinaggio a Roma - da sola e a piedi, ovviamente - mentre compiva quell'atto pietoso, si dice, per la quarta volta. La vide cambiare una moneta d'oro a Viterbo, dove egli viveva; la seguì; le offrì la propria compagnia lungo il viaggio per quaranta miglia o più, con l'infido pretesto di proteggerla; la assalì, portando a compimento il suo inesorabile piano nella campagna, a brevissima distanza da Roma, presso ciò che viene denominata (senza esserlo) la Tomba di Nerone; la derubò; e la percosse a morte con lo stesso suo bastone da pellegrino. Era sposato da poco, e regalò alcuni dei beni della vittima alla moglie: dicendole che li aveva comprati ad una fiera. Ella, tuttavia, che aveva visto la contessa-pellegrina attraversare la loro città, riconobbe alcune chincaglierie che le appartenevano. Suo marito allora le raccontò ciò che aveva commesso. Ella, in confessione, lo riferì ad un sacerdote; e l'uomo fu catturato, entro quattro giorni dopo aver commesso il crimine. Non vi è un tempo prefissato per amministrare la giustizia, o per eseguirla, in questo incomprensibile paese; e da allora egli era rimasto in prigione. Il venerdì, mentre cenava con gli altri carcerati, vennero a dirgli che sarebbe stato decapitato il giorno seguente, e lo portarono via. È alquanto inusuale che si tengano esecuzioni in tempo di Quaresima; ma essendo questo un crimine molto brutto, si ritenne opportuno in quel periodo farne un esempio, mentre un gran numero di pellegrini stavano giungendo a Roma, da ogni parte, per la Settimana Santa. Venni a conoscenza di ciò il venerdì sera, e vidi i manifesti alle chiese, che invitavano la gente a pregare per l'anima del criminale. Così mi decisi ad andare, ed assistere alla sua esecuzione. La decapitazione era prevista per le ore quattordici e mezza, ora romana: o un quarto alle nove antimeridiane. Due amici erano con me; e poiché non sapevamo se la folla sarebbe stata molta, ci trovammo sul posto alle sette e mezza. Il luogo dell'esecuzione era presso la chiesa di San Giovanni decollato (un dubbio complimento a San Giovanni Battista) in una delle strade impraticabili senza alcun marciapiede, delle quali Roma è in gran parte formata - una strada di case marcescenti, che non sembrano appartenere a nessuno, e che non sembrano essere mai state abitate, e furono certamente costruite senza alcun progetto, né senza alcuno scopo preciso, e sono prive di infissi, e sembrano un po' delle fabbriche di birra abbandonate, e potrebbero essere magazzini, salvo il fatto di non contenere nulla. Dirimpetto ad una di queste, una casa bianca, si ergeva il patibolo. Sicuramente un qualcosa di disordinato, non verniciato, sgraziato, di aspetto bizzarro: alto all'incirca sette piedi (circa 2.10 metri): con un'alta intelaiatura a forma di forca che si ergeva al di sopra, nella quale era la lama, appesantita da una massiccia zavorra di ferro, pronta a scendere, e scintillante al sole mattutino, nei momenti in cui usciva, a tratti, da dietro una nuvola. Non c'erano molte persone in attesa; e queste erano tenute ad una considerevole distanza dal patibolo da drappelli di dragoni del Papa. Due-trecento fanti erano in armi, a riposo, disposti a piccoli gruppi qua e là; e gli ufficiali camminavano su e giù, a due o tre assieme, chiacchierando, e fumando sigari. In fondo alla strada c'era uno spazio aperto, dove si sarebbe trovato un mondezzaio, e mucchi di cocci di vasellame, e gli scarti delle verdure, ciò che a Roma si getta un po' ovunque, senza particolare predilezione di luogo. Noi entrammo in una lavanderia, appartenente ad un'abitazione del posto; e in piedi su una vecchia carretta, e su un cumulo di ruote da carro impilate contro il muro, vedevamo, attraverso una finestra chiusa da una grata, il patibolo e la strada al di là di esso finché, in conseguenza di una brusca svolta a sinistra, la nostra vista terminava bruscamente, chiudendosi con un corpulento ufficiale dal copricapo a pennacchio. Batterono le nove, batterono le dieci, e non accadde nulla. Tutte le campane di tutte le chiese suonavano come al solito. Un piccolo drappello di cani si era radunato nello spazio aperto, e si rincorrevano l'un l'altro in mezzo ai soldati. Romani dall'aspetto truce appartenenti all'infima classe, con indosso mantelli blu, ruggine, o vestiti di stracci senza mantello, andavano e venivano, e parlavano fra di loro. Donne e bambini si agitavano, ai margini della rada folla. Un punto fangoso era rimasto alquanto deserto, come una piazza di calvizie sulla testa di un uomo. Un venditore di sigari, con in mano una pentola di terracotta contenente del carbone, andava su e giù, offrendo la sua merce. Un venditore di paste divideva la sua attenzione fra il patibolo e i suoi avventori. Ragazzi tentavano di scalare ai muri, cadendo nuovamente a terra. Preti e monaci si facevano largo fra la gente a gomitate, e si ergevano in punta di piedi per arrivare a vedere la lama: poi se ne andavano. Artisti che portavano incredibili copricapi medioevali, e con barbe che (grazie al Cielo!) non sono mai appartenute a nessuna epoca, dalle loro postazioni in mezzo alla calca lanciavano tutt'intorno pittoreschi sguardi corrucciati. Un signore (che a mio avviso aveva a che fare con le belle arti) andava su e giù calzando un paio di stivaloni, con un barbone rosso che gli pendeva sul petto, e i lunghi capelli rosso acceso, divisi in due code, una su ciascun lato del capo, che gli ricadevano sul davanti oltre le spalle, fin quasi all'altezza della vita, finemente intrecciate! Batterono le undici e ancora non avvenne nulla. Si sparse la voce, fra la folla, che il criminale non voleva confessarsi; in tal caso, i preti lo avrebbero trattenuto fino all'Ave Maria (al tramonto); poiché è loro pietosa usanza di non allontanare il crocifisso da un uomo in simili frangenti, quali il rifiuto di ricevere l'assoluzione, e quindi di abbandonare un peccatore innanzi al Salvatore, fino a tale ora. La gente cominciò a diradarsi. Gli ufficiali si stringevano nelle spalle e sembravano dubbiosi. I dragoni, che ogni tanto passavano cavalcando sotto la nostra finestra per ordinare ad una sfortunata vettura pubblica o ad un carro di allontanarsi, non appena questo si fosse comodamente piazzato là, coprendosi di gente esultante (ma non prima che ciò fosse accaduto), divennero imperiosi e di umore irascibile. La zona deserta non aveva l'ombra di un ospite; e il corpulento ufficiale che chiudeva la prospettiva inalava prese e prese di tabacco. All'improvviso vi fu un rumore di trombe. I fanti scattarono immediatamente sull'attenti. Vennero fatti marciare fin sotto il patibolo, e disposti tutt'attorno ad esso. Anche i dragoni gallopparono alle postazioni più vicine. La ghigliottina divenne il centro di una selva irta di baionette e risplendenti sciabole. La gente si strinse attorno, ai lati della milizia. Un lungo fiume di uomini e ragazzi in ordine sparso, che avevano accompagnato la processione fin dal carcere, si riversarono nello spazio aperto. L'area prima deserta si distingueva a malapena dalle altre. I venditori di sigari e paste rinunciarono per il momento ad ogni intento lavorativo, e abbandonandosi completamente al piacere si cercarono delle buone posizioni in mezzo alla folla. La prospettiva ora culminava in una truppa di dragoni. E il corpulento ufficiale, spada in pugno, scrutava attentamente verso una chiesa presso di lui, che egli riusciva a vedere, ma non noi, la folla. Dopo un breve lasso di tempo, alcuni monaci dalla detta chiesa furono visti avvicinarsi al patibolo; e sopra le loro teste, avanzando lentamente e tristemente, l'effige di Cristo in croce, bardato di nero. Questa fu trasportata attorno alla base del patibolo, fin sul davanti, e girata verso il criminale affinché potesse vederla fino all'ultimo. Era a malapena giunta a destinazione, quando costui apparve sulla sommità del patibolo, scalzo; le mani legate; e col collo della camicia tagliati fin quasi alle spalle. Un giovane uomo - circa ventisei anni - di robusta costituzione, e ben proporzionato. Pallido il viso; baffetti scuri; e capelli bruni. Apparentemente, aveva rifiutato di confessarsi senza prima fargli incontrare la moglie; così era stata inviata una scorta a prenderla, ciò che aveva cagionato il ritardo. Si inginocchiò subito, sotto la lama. Il collo, posizionato in un foro, realizzato all'uopo in un ceppo orizzontale, fu serrato da un simile ceppo situato superiormente; proprio come in una gogna. Subito sotto di lui era una borsa di cuoio. E in questa la sua testa rotolò all'istante. Il boia la teneva per i capelli, camminando tutt'intorno al patibolo, mostrandola alla gente, prima ancora di potersi render conto che, con un secco rumore, la lama era pesantemente scesa. Quando ebbe fatto il giro dei quattro lati del patibolo, fu fissata in cima a un palo sul davanti - una piccola chiazza bianca e nera, che la lunga via poteva scrutare, e su cui le mosche potevano posarsi. Gli occhi erano rivolti in alto, come se avesse distolto lo sguardo della borsa di cuoio, e avesse guardato verso il crocifisso. Ogni colore e sfumatura vitale l'aveva, in quel momento, abbandonato. Era grigia, fredda, livida, cerea. Così era anche il corpo. C'era una gran quantità di sangue. Quando lasciammo la finestra, e ci avvicinammo al patibolo, era molto sporco; uno dei due uomini che vi stava gettando sopra dell'acqua, girandosi per aiutare l'altro a spostare il corpo in una bara, faceva attenzione a dove metteva i piedi, come in un pantano. Uno strano effetto lo faceva l'apparente scomparsa del collo. Il capo era stato reciso così vicino al tronco, quasi che la lama avesse evitato appena di frantumare la mascella, o di mozzare l'orecchio; e il corpo sembrava non avere più nulla dalle spalle in su. Nessuno appariva interessato, o comunque toccato. Non vi era alcuna manifestazione di disgusto, o di pietà, o di indignazione, o di mestizia. Le mie tasche vuote furono saggiate, diverse volte, in mezzo alla folla appena sotto il patibolo, mentre il cadavere veniva incassato. Fu uno spettacolo brutto, sporco, ributtante; il cui unico significato non era altro che un'opera di macelleria, al di là del momentaneo interesse, ai danni dell'unico sventurato protagonista. Sì! Una tale vista ha un solo significato e un solo ammonimento. Che io non possa mai dimenticarlo. I giocatori che speculano sul lotto, si posizionano in punti favorevoli per contare i fiotti di sangue che sgorgano, qui e là; e giocano quei numeri. Con essi c'è una bella probabilità di vincere. Il corpo fu trasportato via a tempo debito, fu ripulita la lama, smontato il patibolo, e smantellato l'intero odioso apparato. Il boia: un fuorilegge EX OFFICIO (quale ironia sulla Giustizia!) che per la vita non osa traversare il Ponte di S. Angelo se non per svolgere il proprio lavoro: si ritirò nella sua tana, e lo spettacolo poté dirsi concluso… And the show was over”. Nelle "Memorie" di Mastro Titta la stessa esecuzione viene così descritta:“Esecuzione n° 384: Giovanni Vagnarelli del fu Agostino da Gubbio, di anni 26, coniugato, campagnolo, per grassazione, ed omicidio in persona di Anna Cotten Bavarese, condannato "al taglio della testa" li 8 marzo 1845 in via dei Cerchi”.
Prima di ogni esecuzione Mastro Titta, da buon cristiano (!) (ma questo era il suo pensiero: “Ho sempre creduto che chi pecca deve espiare; e mi è sempre sembrato conforme ai dettami della ragione ed ai criteri della giustizia, che chi uccide debba essere ucciso. Un delinquente è un membro guasto della società, la quale andrebbe corrompendosi man mano se non lo sopprimesse. Se abbiamo un piede od una mano piagata e che non si può guarire, per impedire che la cancrena si propaghi per tutto il corpo, non l'amputiamo?”), si confessava e si comunicava, poi indossava il mantello rosso e si recava a compiere l'opera, che si trattasse di “mazzolare”, “impiccare”, “squartare o decapitare”...


Il mantello originale di Mastro Titta esposto nel Museo Criminologico di Via Giulia

Come Dickens altri celebri viaggiatori stranieri rimasero colpiti dalla crudezza delle scene di esecuzione capitale cui assistettero; tra questi Lord Byron, che conobbe Mastro Titta quando il boia si apprestava a varcare la soglia dei duecento "offici". Il poeta inglese, dopo aver assistito a tre esecuzioni capitali tramite ghigliottina, nel 1813 così scriveva al suo amico ed editore John Murray: «La cerimonia, - compresi i preti con la maschera, i carnefici mezzi nudi, i criminali bendati, il Cristo nero e il suo stendardo, il patibolo, le truppe, la lenta processione, il rapido rumore secco e il pesante cadere dell'ascia, lo schizzo del sangue e l'apparenza spettrale delle teste esposte - è nel suo insieme più impressionante del volgare rozzo e sudicio new drop e dell'agonia da cane inflitta alle vittime delle sentenze inglesi». Perfino Massimo D'Azeglio, in alcune pagine del suo scritto "I miei ricordi", sintetizzò la barbarie della giustizia praticata nella Roma di quegli anni descrivendo un'immagine vista a Porta San Giovanni: «In una gabbia di ferro stava il cranio imbiancato dal sole e dalle pioggie di un celebre malandrino».
E' da precisare, però, che simili scene, a quel tempo, si ripetevano frequentemente in tutte le nazioni europee, nonostante i principi di umanizzazione della pena professati dagli Illuministi ed affermati nel celebre libro "Dei delitti e delle pene" da Cesare Beccaria. Nel 1798, con l'avvento della dominazione napoleonica, fu proclamata la Repubblica Romana e Pio VI° fu deportato in Francia. Furono quindi proprio i francesi ad introdurre la ghigliottina anche nell'ex Stato Pontificio ed il primo condannato ad essere sottoposto al taglio della testa tramite il nuovo strumento fu Tommaso Tintori, reo d'omicidio, decapitato il 28 febbraio 1810 per mano, ovviamente, di Mastro Titta. Fino al 1813 il boia usò la ghigliottina per ben 56 volte. Nel 1815 il Congresso di Vienna restituì Roma al Papa e, nonostante l'avversione per la "macchina di morte" introdotta dai francesi, già nel 1816 la ghigliottina fu ripristinata, perché ritenuto uno strumento agile e veloce per eseguire le condanne a morte. Tommaso Borzoni, reo di "omicidi appensati e ladrocinii", fu il primo ad essere ghigliottinato sotto il “nuovo” Governo Pontificio, il 2 ottobre 1816, mentre celebre, tanto da essere documentata nel meraviglioso film di Luigi Magni “Nell’anno del signore”,


fu l’esecuzione (“ordinata dal papa durante un processo senza prove e senza difesa”) a Piazza del Popolo dei due carbonari Angelo Targhini e Leonida Montanari il 23 novembre 1825; esecuzione testimoniata anche dalla targa affissa davanti la chiesa di Santa Maria del Popolo,

proprio sulla parete della caserma dei Carabinieri, a pochissimi metri da Porta del Popolo (ma a Targhini e Montanari dedicherò un post a parte).



L'ultima condanna a morte mediante ghigliottina fu eseguita a Roma il 24 novembre 1868: le vittime si chiamavano Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti, accusati dell'attentato alla caserma Serristori in Borgo, che causò la morte di venticinque soldati zuavi. Ad eseguire la condanna fu il boia Antonio Balducci, aiutante di Mastro Titta da alcuni anni e che lo sostituì a partire dal 1865. La ghigliottina fu usata l'ultima volta, nello Stato Pontificio, a Palestrina: era il 9 luglio 1870 e l'ultimo giustiziato si chiamava Agatino Bellomo.
Mastro Titta dà certamente l'impressione del personaggio sanguinario ed estremamente freddo e distaccato nel compiere i suoi "offici di boia" ma chi lo conobbe lo descrisse come "...un uomo bonario, educato, pronto ad offrire prese di tabacco alle vittime e felice quasi di compiere il suo dovere...", per il quale riceveva ogni volta il simbolico compenso di "un papetto”, ovvero tre centesimi della lira romana. Effettivamente Mastro Titta era assai popolare perché le condanne a morte del governo papale erano seguite sempre da grandi masse. Quello da lui "offerto" era una sorta di spettacolo: il condannato si avvicinava al palco dell'esecuzione tra il salmodiare delle Confraternite e lo schieramento in quadrato del reparto militare; seguivano poi gli ultimi tentativi di un frate per convincere il condannato, reo di delitti inquietanti, a prendere il “conforto” religioso. E infine, rapida, avveniva l’esecuzione ("A Ruganti'... 'na botta... e via..."). Nel momento in cui la testa della vittima era staccata dal corpo o infranta dal colpo di mazzuolo i padri davano uno schiaffone ai figli, recati a vedere lo “spettacolo”: “perché ricordassero e prendessero esempio delle condanne spettanti ai malandrini”.



Crude, come detto, sono spesso le descrizioni dei suoi “offici”: “Non era stata agevole l’impiccagione di Francesco Perelli, un povero diavolo reso becco dalla moglie troppo avvenente. Non appena, infatti, gli ebbi tolto il bavaglio cominciò ad urlare, a chiedere grazia e a invocare le celesti legioni perché discendessero a liberarlo; non era svenuto come tanti altri, possedeva ancora tutte le sue forze; ma era mestiere trascinarlo e portarlo su a braccia mentre si dibatteva. Con il laccio al collo, gridava ancora, e fu proprio la corda che gli strozzò la parola di bocca. Impiccato, diventò paonazzo e quasi nero. Aveva gli occhi fuori dall’orbita, i capelli irti come chiodi, la lingua sporgente dalla bocca dura e irrigidita. Quando incominciai a spaccarlo, mi pareva che le sue fibre avessero ancora dei fremiti di vita. Certo non avevano perduto punto del loro colore naturale. La giornata era rigida; soffiava la tramontana, e le sue viscere fumavano, come se fossero state tratte bollenti da una pentola; a contatto dell’aria algida il fumo si condensava in grasso e deponendosi sulle mie mani, me le rendeva scivolose. Prima di tornare a casa mi ci volle una libbra di sapone per ripulirmele”.
Come accennato all'inizio, quello di Mastro Titta fu un nome leggendario, che ispirò, ancora dopo diversi anni dalla sua morte, al Belli una dozzina di sonetti, nei quali egli definì il boia come “er bastone de la vecchiaia de li Stati”, in polemica ironica con i giacobini che volevano l’abolizione del carnefice, simbolo di un sistema di giustizia “da tiranno”. Così in Er dilettante de Ponte (il primo dei tre sonetti che ripropongo di seguito), il poeta rievoca un’esecuzione a ponte Sant’Angelo, nel caratteristico segno dello spettacolo e segnalando in nota che “molto ben pagato è il carnefice, ed in qualunque servizio del suo mestiere gode di varii e bei profitti. Si vuole però che l’atto della uccisione del paziente siagli pagato tre quattrini, cioè”, come ricordavo all’inizio, “tre centesimi della lira romana ‘il papetto’, a dimostrare la viltà dell’opera”:

ER DILETTANTE DE PONTE

Viengheno: attenti: la funzione è lesta.
Ecco cor collo iggnudo e ttrittichente.
Er prim'omo dell'opera, er pazziente,
L'asso a coppe, er ziggnore de la festa.

E ecco er professore che sse presta
A sservì da cirùsico a la gente
Pe ttre quadrini, e a ttutti gentirmente
Je cura er male der dolor de testa.

Ma no a man manca, no: l'antro a man dritta.
Quello ar ziconno posto è l'ajutante.
La procedenza aspetta a mastro Titta.

Volete inzeggnà a me chi ffa la capa?
Io qua nun manco mai: sò ffreguentante;
E er boja lo conosco com'er papa.

29 agosto 1835




Per i non romani.... IL DILETTANTE DI PONTE [1]

Vengono: attenti: la funzione è rapida.
Ecco col collo nudo e traballante
Il protagonista, il paziente,
L'asso di coppe, il signore della festa.

Ed ecco il professore che si presta
A servire da chirurgo alla gente
Per tre quattrini, e a tutti gentilmente
Cura il dolore del mal di testa.

Ma non a sinistra, no: l'altro sulla destra
Quello al secondo posto è l'aiutante.
La precedenza spetta a mastro Titta.

Volete insegnare a me chi fa la testa? [2]
Io qua non manco mai: sono frequentatore;
E il boia lo conosco come il Papa.
[1] - Per i romani "Ponte" è solo ponte S.Angelo
[2] - Chi effettivamente opera l'esecuzione.




ER RICORDO
Er giorno che impiccorno Gammardella
Io m'ero propio allora accresimato.
Me pare mò ch'er zàntolo a mercato
Me pagò un zartapicchio e 'na ciammella.
Mi' padre pijò poi la carrettella
Ma prima vorze gode l'impiccato:
E me tieneva in arto inarberato
Dicenno: «Va' la forca quant'è bbella»!

Tutt'a un tempo ar paziente mastro Titta
J'appoggiò un carcio in culo, e ttata a mene
Un schiaffone a la guancia de mandritta.


«Pija», me disse, «e aricordete bene
Che sta fine medéma ce sta scritta
Pe mill'antri che ssò mejo de tene».
29 settembre 1830

Per i non romani.... ER RICORDO

Il giorno che impiccarono Camardella [1]
Io mi ero appena cresimato.
Mi sembra come se fosse ora che il compare
Mi pagò una trottola e una ciambella.

Mio padre prese poi il carrozzino
Ma prima volle godersi l'impiccato:
E mi teneva in alto sollevatoDicendo:
«Guarda la forca quant'è bella »!

Nello stesso istante al condannato mastro Titta [2]
Applicò un calcio nelle terga, e papà a me
Uno schiaffone alla guancia destra.

«Prendi», mi disse, «e ricordati bene
Che questa stessa fine è destinata
A mille altri che sono migliori di te».

[1] - Antonio Camardella. Il canonico Donato Morgigni, entrato in affari col Camardella, aveva in seguito mancato di parola; non riuscendo ad ottenere giustizia per vie legali, Camardella lo aveva ucciso, ed era stato per questo condannato alla pena dell'impiccagione, nel 1749. Fino all'ultimo rifiutò di pentirsi del suo gesto. A Roma, la sua fama era ancora viva a qusi un secolo dall'accaduto.
[2] - Il boia; ovviamente, non il "nostro" mastro Titta (G.B.Bugatti), che a quei tempi non era ancora nato!



LA GIUSTIZZIA AR POPOLO

Dice ch'er monno è bello perch'è vario
Pe sta raggione io vorze una matina
Annammene a vedé la quajottina
Ch'è successa a la croce der Carvario.

Trovai già ppronto er boja cor vicario,
E sse stava pe dà la tajatina:
Quann'ecco un frate co' ttanta de schina
Che me viè a ripparà come un zipario.

«Padre», dico, «levateve d'avanti...»
Ma in quer frattempo, tzà, se sente un bòtto
Che ffa dà uno strilletto a ttutti quanti.

Me slongo, e vedo già ffinito er gioco.
Bravi! Ma un'antra vorta io me ne fotto
D'annamme a scommidà ppe ttanto poco.

8 dicembre 1834


Per i non romani.... L'ESECUZIONE AL POPOLO [1]

Si dice che il mondo sia bello perché vario
Per questa ragione io volli una mattina
Andarmene a vedere la ghigliottina
Che è succeduta alla croce del Calvario. [2]

Trovai già pronto il boia col vicario,
E stavasi per dare la tagliatina:
Quand'ecco un frate con tanto di schiena
Che giunge a coprirmi come un sipario.

«Padre», dico, «toglietevi da davanti...»
Ma in quel frattempo, zac, si ode un colpo
Che fa emettere a tutti un gridolino.

Mi allungo, e vedo lo spettacolo già terminato.
Bravi! Ma un'altra vorta io me ne infischio
D'andarmi a scomodare per così poco.

[1] - Piazza del Popolo.
[2] - Cioè, la pena capitale che ha sostituito il supplizio della crocifissione.

Ritornando alle memorie autobiografiche di Mastro Titta, esse vennero pubblicate postume nel 1886 da Alessandro Ademollo; il libretto ha poi dato spunto ad una serie di narrazioni di «fattacci», scritte nel 1891 da Ernesto Mezzabotta e spesso ristampate fino ad oggi anche dall’editore Perino. Le sue memorie autobiografiche in effetti costituiscono tecnicamente un “falso”, perché Mastro Titta non scrisse mai delle “memorie” vere e proprie, ma si limitò a "registrare" un dettagliato elenco degli “offici” da lui compiuti, indicando per ogni rispettiva condanna il crimine commesso, le generalità delle vittime, il luogo ed il tipo di esecuzione. Mastro Titta aveva in fin dei conti una buona penna ed una discreta forma di espressione in italiano, a parte alcune "cadute" nel dialetto romanesco e qualche termine direttamente ripreso da quest’ultimo. Praticamente, quelli da lui narrati, sono una serie di veri e propri “racconti a sfondo poliziesco", dal momento che Mastro Titta non vuol farsi passare solo per “mero esecutore” delle sentenze dei tribunali pontifici, ma vuol mostrare che la giustizia papale (di cui lui si definiva come l'ultimo ma "fondamentale" anello) era “infallibile e corretta”: egli, infatti, “giustifica” il suo lavoro esponendo non soltanto la messa in atto della pena capitale, ma descrivendo i fatti, riproponendo le indagini, presentando i protagonisti (sia le vittime sia gli aguzzini dei fatti delittuosi), facendone anche spesso una grezza lettura socio-psicologica tesa a completare il quadro. In effetti parecchi casi si risolvono grazie ad autodenuncie dei “criminali” stessi, più che per le capacità dei funzionari della polizia pontificia. Questo perché, nella maggioranza dei casi, che non riguardano criminali abituali quali possono essere briganti e banditi da strada (quelli che Mastro Titta chiama sprezzatamene “vili grassatori”, perché spesso si comportano vilmente davanti alla morte propria come son stati leggeri con la vita altrui), ma poveri disgraziati che hanno agito in preda a disperazione, follia, o gelosia. Quest’ultimo movente è in effetti uno dei più diffusi: dopo le questioni legate al denaro, nella Roma papalina si uccideva e si moriva per onore e per questioni "di corna". Nelle sue "Memorie" racconta con gran dovizia di particolari anche gli incontri amorosi e le susseguenti "ammazzatine". Paradossalmente non tratta con la stessa dovizia di particolari le torture riservate alle donne, in quanto egli stesso le definisce, senza mezzi termini: “esseri di intelletto inferiore” rispetto all’uomo, quindi con forza di volontà minima, e pertanto più facilmente influenzabili. Nei suoi resoconti uomini e donne si amano ed odiano, spesso fino ad uccidersi per questioni di soldi o per desiderio sessuale, più che per amore. Ed in effetti le “corna” ci sono spesso e volentieri. In relazione ai rapporti di coppia, ad esempio, scriveva: “Non è raro il caso che il marito innamorato sia anche un marito ingannato. I sacrifici che fate per una donna essa non li considera che come un tributo dovutole; essa aumenta il concetto di sé medesima e cresce per conseguenza le sue pretese in ragione dell’affetto che le portate”. E ancora: “Le resistenze di Sofia furono deboli, per non dire nulle. Le condizioni patologiche della donna erano favorevoli a quell’avventura arrischiatissima (ossia con il suo cocchiere, famoso e irriducibile don Giovanni). Se è vero che tutte le donne hanno dei momenti nei quali sono di chi le piglia, doveva essere quello uno dei suoi momenti…quando una passione non ha potuto avere il suo svolgimento nei sensi di una donna, questa ne soffre orribilmente, il suo carattere si altera e si dà in balia agli eccessi più mostruosi.” E, pur vivendo nello stato Pontificio, condizionato da una religione sessuofobia come quella cristiana, nei popolani romani sembrano prevalere la lascivia e la mancanza di moralità.