20 agosto 2008

PERSONAGGI DI ROMA - GIROLIMONI (e) IL MOSTRO DI ROMA

Questo post è frutto di una ricerca di materiali molto lunga e laboriosa, fatta di letture di libri e romanzi, fonti su siti internet e brani da giornali della fine degli anni ’20 del secolo scorso, ed anche di documentazioni filmate dell’Istituto Luce e non da ultimo il film “Girolimoni, il mostro di Roma”, di Damiano Damiani. Scusate la lunghezza ma l’argomento, pur se interessante, è molto articolato (è stato difficile anche coordinare il tutto perché, malgrado i tanti articoli dei giornali dell’epoca ed i libri dedicati al “Caso Girolimoni”, molte testimonianze risultano tra loro discordanti, e ciascuno detiene la propria verità, spesso “storpiando” i nomi dei protagonisti della vicenda): non potevo proprio redigerlo in altro modo.
Tra il 1924 ed il 1927, in una Roma che era ancora più vicina alla città ottocentesca, con la campagna che ancora frequentemente si incuneava nel tessuto urbano, che non alla moderna metropoli di oggi, vennero commessi diversi rapimenti, con conseguenti stupri (o presunti tali, come vedremo) ed omicidi, ai danni di bambine di pochi anni. Lo choc che la popolazione subì fu altissimo, tanto che ne risultò stravolta la stessa vita sociale dei cittadini romani: molte madri di famiglia si barricarono in casa con le proprie piccole, onde evitare di rischiare di finir sui titoli di cronaca nera, ma, addirittura, anche gli uomini si sentirono condizionati dal clima di sospetto che attanagliava la popolazione: il semplice avvicinarsi o il rivolgere la parola ad una bambina (o, addirittura, anche ad un maschietto) in strada o in un parco pubblico, da parte di un qualunque individuo, magari soltanto per chiedere un’informazione, faceva si che venisse subito visto come un potenziale delinquente, con il rischio di un conseguente linciaggio pubblico. Non riuscendo a focalizzare le generalità dell’assassino stupratore, si iniziò a definirlo “il mostro di Roma”. E, di questi delitti, come vedremo, venne incolpato l’innocente “mediatore” Gino Girolimoni. Dopo la Prima Guerra Mondiale, come detto, Roma era ancora una città a misura d’uomo, con il traffico limitato a poche centinaia di autoveicoli ed a carretti a trazione animale, e con il grosso della popolazione che si spostava in bicicletta, tram, filobus o a piedi; una città la cui economia era ancora basata principalmente sull’agricoltura, sul commercio e sull’appena nascente sviluppo edilizio. La Roma dei bordelli e dei carretti degli acquacetosari, ma anche la Roma degli strilloni agli angoli delle strade e del Caffè Aragno (luogo di ritrovo dei più celebri letterati del periodo), la Roma di Trilussa, Petrolini, Balzani e Pascarella, ma anche la Roma, da qualche anno, popolata da loschi figuri con camicie nere, pantaloni grigioverdi alla zuava, mantelline, gambali di cuoio, fez in testa e manganelli, con i quali randellavano i “dissidenti”, magari dopo averli sottoposti a sane bevute di olio di ricino: i giovani fascisti, seguaci di Mussolini, che cercava di dare di se, all’Italia e al mondo, l’immagine di uomo duro e virile, l’erede di Giulio Cesare, capace di restaurarne l’Impero.
Ma veniamo alla nostra cronaca e riassumiamo per brevi linee i fatti: il pomeriggio del 31 Marzo 1924, mentre giocava nei giardini di Piazza Cavour, venne rapita la piccola Emma Giacobini, di quattro anni. La bimba fu ritrovata in lacrime, la sera stessa, in una zona agricola sulle pendici di Monte Mario, con i vestiti strappati e gli evidenti segni di uno stupro e di un tentativo di strangolamento. Alcune testimonianze di contadini della zona parleranno di un uomo anziano e benvestito che, al tramonto, fu visto allontanarsi in fretta, probabilmente disturbato da qualcuno o qualcosa, proprio dal luogo del ritrovamento della piccola. Pochi giorni dopo, il 4 Giugno, dopo che qualche ora prima, in Via Paola, la piccola Armanda Leonardi di soli due anni, mettendosi a piangere ed urlare aveva fatto desistere dal suo intento il suo rapitore, scomparve da Via del Gonfalone la piccola Bianca Carlieri, anche lei, come la prima vittima del mostro, di soli quattro anni. Questa volta le testimonianze misero meglio a fuoco il possibile criminale, visto che la stessa bambina, da tutti chiamata “la Biocchetta” (termine che si potrebbe tradurre in italiano con sonnolenta, abulica, assente), per la sua ingenuità, disse ai suoi compagni di giochi che si sarebbe allontanata “con lo zio” per andare a comprare le caramelle. E così fece, tenendo per mano un anziano uomo vestito di grigio. Cosa appurata anche grazie alla testimonianza di alcune donne che effettivamente li videro e, soprattutto, alla dichiarazione di una sua amica di giochi, Valeria Proietti, che chiese alla Biocchetta “’Ndo’ vai Biocche’?”, a cui fu risposto: “Vado co’ zio mio che me compra le caramelle(testimonianza della Proietti del 05 Giugno 1924, citazione). Alle urla della madre, la lavandaia Alessandrina Negri, l’intera popolazione del Rione Ponte si mise alla ricerca del vecchio e della bambina il cui cadavere, invece, verrà ritrovato soltanto il giorno dopo, a notevole distanza dal luogo della scomparsa. Il corpo insanguinato della piccola, dopo aver subito uno stupro e lo strangolamento, e senza la scarpa destra al piede, verrà infatti rinvenuto da una “cicoriara”, Maria Duranti, in un prato presso la Basilica di San Paolo Fuori le Mura. E’ curioso rilevare come soltanto l’edizione pomeridiana di un giornale, il “Nuovo Paese”, il giorno dopo il fatto riportò la notizia della sparizione della bambina: “Ieri sera, verso le 22 (questo fu un particolare errato, che rallentò le indagini, in quanto il fatto, realmente, avvenne nelle prime ore del pomeriggio), Via del Gonfalone, una delle strade che attraversano Via Giulia e che si trova nei pressi delle Carceri Nuove, è stata messa in subbuglio per la scomparsa di una bambina di 3 anni, di nome Bianca Carlieri, abitante nella stessa via al numero 20. Una donna, la madre della piccina, mentre si trovava a parlare con alcune comari fuori della porta di casa, si è accorta improvvisamente della sparizione della piccola: l’ha cercata dappertutto, ma inutilmente. Alle grida della madre angosciata sono accorsi i militi della Milizia Nazionale, di servizio alla Casa dei Corrigendi delle Carceri Nuove, e subito sono iniziate le indagini. Si è così potuto sapere che verso le 22 un giovane alto, slanciato, vestito con abito grigio, aveva transitato per via del Gonfalone e, con la promessa di cioccolatini e ninnoli, era riuscito a condurre fino alla vicina via dell’Armata un’altra bambina. Alcune donne che conoscevano la piccola, avendola incontrata con un estraneo, l’hanno chiamata per nome ed allora lo sconosciuto l’ha lasciata e la piccola si è data a correre verso casa. Sembra quindi che lo stesso individuo abbia ripetuto il gesto con la piccola Carlieri che è riuscito a condurre via senza che alcuno se ne avvedesse. Solo due donne hanno affermato di aver visto passare la piccina per mano allo strano individuo. I due si dirigevano verso il ponte Gianicolense, che hanno poi attraversato. I militi di servizio a Regina Coeli, anch’essi interrogati, hanno assicurato di aver veduto passare l’uomo vestito di grigio con una bambina per mano e dirigersi verso Trastevere”. Quindi, a parte la popolazione del Rione Ponte ed i pochi lettori della testata giornalistica, praticamente Roma non seppe della scomparsa della Biocchetta, anche perché il 5 Giugno sia i giornali del mattino che quelli nell’edizione pomeridiana dedicarono la maggior parte delle loro pagine alla prossima visita a Roma di Ras Tafarì Makonnen, il futuro Negus Hailè Selassie ma, soprattutto, all’attacco rivolto dal deputato Giacomo Matteotti contro i fascisti, accusati di aver falsificato i risultati delle elezioni di un paio di mesi prima.
Se la notizia della sparizione della Biocchetta passò quasi sotto silenzio, la notizia del ritrovamento del corpo della bimba, dopo le violenze subite, ebbe invece grande eco sui quotidiani che, titolando le prime pagine a “caratteri di scatola(un particolare carattere tipografico di grosso formato, con cui si sviluppavano i titoli eclatanti a 9 colonne e così chiamato perché poi i “tipi” delle singole lettere utilizzate venivano riposti in cassettine di legno, ordinate alfabeticamente, dette scatole) descrissero l’accaduto con gran sfoggio di particolari, anche particolarmente crudi, e rivendicarono a gran voce la cattura dell’assassino. E chi non sapeva leggere fu informato della ferale notizia dagli strilloni, che la annunciavano agli angoli delle strade vendendo giornali, o da qualche conoscente.
Immediatamente gli animi di tutta la popolazione si esasperarono: la tanto decantata sicurezza e l’ordine, che il Fascismo andava proclamando ai quattro venti da un paio d’anni, furono d’un tratto spazzati via dall’assassinio della Biocchetta. La popolazione si sentiva minacciata nell’intimo da uno dei suoi stessi membri che, però, aveva le sembianze di un fantasma difficilmente individuabile; il 7 Giugno “L’Epoca” ne fece uno pseudo identikit che (per quanto rivelatosi poi falso) poteva individuare la maggior parte degli uomini di Roma: “Si tratta di un uomo dell’apparente età di 35 anni, alto metri 1,70 circa, con un volto dai lineamenti rudi, con baffi neri, a punta sporgente, di un uomo soprattutto distinto da una rimarchevole bruttezza. Egli, al momento in cui rapì la povera Bianca, vestiva civilmente di grigio, con un cappello a cencio nero”. L’identikit, come abbiamo imparato a conoscerlo nei film, soprattutto americani, del dopoguerra, a quei tempi non era una pratica conosciuta in Italia: esisteva però, in Francia, il “portrait parlé” o “Bertillonage” (da Alphonse Bertillon (1853-1914) che, figlio del vice presidente della Società d’Antropologia di Parigi, trascorse la sua infanzia familiarizzando con crani e simili reperti scientifici. A 26 anni incomincia ad annotare su dei quadernetti tutte le caratteristiche fisiche dei detenuti del carcere di Parigi, tanto da ricavarne un sistema per identificare i criminali fondato su una combinazione di misure fisiche, prese da procedure attentamente prescritte, e basate su due principi cardine: “l’ossatura umana non cambia più dal ventesimo anno di vita” e “ogni scheletro è diverso per ciascun individuo”. Il sistema Bertillon era composto da due fasi: in una venivano effettuate descrizioni fisiche del corpo umano in questione e in un'altra venivano rilevate misure fisiche di determinate parti del corpo umano. Il nome del detenuto, le descrizioni e le misure fisiche del corpo di un individuo, con l'aggiunta di una foto segnaletica, ovvero una foto frontale e laterale dell'individuo a mezzo busto, venivano annotate su una scheda detta "Osservazioni Antropometriche", nella quale venivano, ad esempio, riportate le misure dell’altezza dell’individuo, dell’apertura delle braccia, come pure le misure delle singole dita o delle orecchie, il tipo di naso, il colore degli occhi o la forma del cranio. Nel dicembre del 1882 il prefetto di polizia, autorizza ad applicare tale sistema nelle carceri per una durata di tre mesi. Nel 1887, una circolare del ministero degli interni autorizza ufficialmente l'utilizzo del "sistema Bertillon" per identificare i criminali. Successivamente esportato negli Stati Uniti il “sistema Bertillon” rimase in vigore fino al 1903, quando, nel penitenziario federale a Leavenworth, nello stato di Washington, mentre si stava schedando un prigioniero chiamato Will West gli addetti si accorsero che quel nome era già familiare e che anche le misure fisiche prese al soggetto e la sua foto erano uguali a quelle di un altro detenuto William West, schedato mesi prima.

Solo quando le loro impronte digitali furono confrontate si accertò che si trattava di due persone diverse. Di fatto il "caso West" screditò simultaneamente ben tre metodi di identificazione: il nome personale, la foto segnaletica e le misure fisiche di Bertillon. Nello stesso tempo confermò l’accuratezza e l’utilità dell’identificazione dell’impronta digitale), ma le caratteristiche notate dai testimoni oculari romani erano troppo esigue per poter creare una vera e propria “scheda” di riconoscimento del mostro. La Polizia iniziò però a fermate individui sospetti, rispondenti a tali descrizioni, ma erano, potenzialmente, migliaia…: trovare il mostro era praticamente come cercare un ago in un pagliaio. E non venne di certo aiutata dai presunti testimoni del fatto, visto che gli stessi, durante la fase di riconoscimento dei sospettati fermati, li riconobbero praticamente in toto, tanto che i colpevoli potevano essere, in questo modo, decine. Dopo qualche giorno, cavalcando il sentimento popolare, i giornali presero ad attaccare la polizia, che non sapeva in che direzione incanalare le indagini e che, contestualmente, non sapeva far mantenere l’ordine pubblico. Ancora “L’Epoca”, il 10 Giugno: “Roma non ha più un servizio di polizia! …La delinquenza ha mano libera a Roma. Si può impunemente rubare e saccheggiare. Basta avere un’accortezza sola: non lasciare sul luogo del delitto il proprio biglietto da visita…”. E’ pur vero che le rimostranze fatte dal popolo e dai giornali erano veritiere ma vennero effettivamente utilizzate, dagli stessi, delle terminologie che andarono oltre l’ordinario diritto di cronaca; il solo “La Voce Repubblicana”, sempre il 10 Giugno, fece un durissimo attacco ai giornali controllati dal regime, con l’articolo titolato “Incoscienza”: “Accanto alla bestiale figura dell’assassino, un’altra cosa è sovrumanamente ributtante: la suina abbondanza di particolari con cui alcuni giornali hanno esposto al pubblico gli aspetti più osceni del tragico fatto… Né la pietà per la bambina morta né il rispetto per il dolore della madre disperata ha trattenuto questi signori, che non vorremmo avere per colleghi, dalla loro impresa. E pensare che essi appartengono proprio ai giornali che vorrebbero limitare la libertà di stampa… degli altri! Per impedire a noi, per esempio, di dir loro quello che si meritano allorché danno certe prove di incoscienza e di insensibilità morale.”
Ma il giorno successivo, l’11 Giugno, sulle prime pagine dei giornali compare la notizia che il carnefice della Biocchetta è stato arrestato da un agente privato, Vittorio Pellegrini: il suo nome era “Francesco Zabardelli” (in realtà anche questo dato venne “storpiato” dal cronista di turno: il vero cognome del fermato era, infatti, Imbardelli). Sulle sue tracce l’agente privato era stato messo dalle supposizioni di tre popolane che, nell’identikit fornito dai giornali, avevano riconosciuto l’Imbardelli, che era un conosciuto “senza dimora”, abituale frequentatore delle vie dei Rioni Borgo e Ponte, nelle quali chiedeva l'elemosina. Pedinatolo per due o tre giorni, aveva potuto accertare che l’Imbardelli era solito molestare anche i bambini nel chiedere l’elemosina. A seguito degli interrogatori i dubbi già insinuatisi nelle forze dell’ordine sulla colpevolezza del fermato vennero confermati: si accertò, infatti, che l’Imbardelli era uno squilibrato mitomane già precedentemente fermato perché solito chiedere l’elemosina e non per atti osceni. Il balordo, sotto interrogatorio, si era autoaccusato dell’omicidio della Biocchetta ma, ovviamente le sue dichiarazioni piene di contraddizioni fecero miseramente crollare il suo castello “autoaccusatorio”. A sua difesa intervenne il direttore del dormitorio pubblico dove l’Imbardelli trascorreva abitualmente la notte, mostrando il registro che certificava che, la sera della scomparsa della Biocchetta, l’Imbardelli era entrato in dormitorio prima dell’ora del delitto. Il direttore stesso lo descrisse come un tipo facilmente suggestionabile ed al tempo stesso mitomane.
Imbardelli non fu purtroppo il solo mitomane a comparire in questa cupa vicenda, tanto per complicare ulteriormente il lavoro della Polizia, visto che dopo il ritrovamento di Bianca Carlieri i colleghi di un rozzo vetturino, Amedeo Sterbino, iniziarono scherzosamente a schernirlo circa le sue dubbie qualità di “amatore”. Dallo scherzo all’infamia dell’accusa il passo fu breve: il vetturino, oppresso dai sospetti, seppur infondati, di essere il maniaco si avvelenò con il “vetriolo”, bevendo direttamente da un fiasco da vino dell’acido solforico che, in pochi secondi, lo portò ad una morte atroce mentre continuava a gridare al popolo la sua innocenza. Era il 2 Luglio 1924. In due lettere che gli vennero trovate in tasca, indirizzate al Questore di Roma e ad un quotidiano, lo Sterbino ribadiva la sua innocenza con queste parole: “La gente si accanisce contro di me. Poiché finirei per essere arrestato (e sicuramente sottoposto a feroci interrogatori), preferisco uccidermi”. A quel punto (il questore Emilio Del Bono si era addirittura rivolto ad un suo personale amico, un veggente di Via dei Due Macelli, un tale professor Gabrielli, ovviamente senza che ne sortissero risultati, malgrado lo stesso indicò una interessantissima pista da seguire, cosa puntualmente ignorata dagli inquirenti (“La Voce” – ed. cit.; intervista a Gabrielli raccolta presso l’ufficio del questore Bertini): “Ecco… avanzo una semplice ipotesi: nessuno, a me pare, ha fatto caso a una circostanza di gran valore. Alcuni testimoni hanno detto che la piccola Bianca, mentre camminava con l’individuo vestito di grigio, rispose a chi le domandò dove andasse: “vado con zio mio”. Evidentemente la bambina conosceva l’individuo. I bambini sono soliti chiamare zio il conoscente, l’amico di casa…”) le ricerche della polizia vennero “integrate” da quelle della stampa, che iniziò ad occuparsi seriamente del “mostro”. Ma l’input maggiore, dopo la sostituzione di Del Bono con Arturo Bocchini, lo diede lo stesso Mussolini che, dopo la Marcia su Roma del 28 Ottobre 1922, si preparava a prendere definitivamente in mano le redini del Paese, e che sentiva la propria autorità e, di conseguenza, quella del Fascismo, minacciate dall’ombra dell’assassino stupratore di bimbe. Proprio in quei giorni Mussolini stava conducendo con la Santa Sede delle trattative per la “riconciliazione” tra lo Stato Italiano ed il Vaticano, che era stato escluso dalla Conferenza di Pace di Versailles del 1919 e che, quindi, aveva perso visibilità sulla scena politica internazionale. Pio XI° indisse anche un Anno Giubilare per il 1925, con l’intento di rilanciare nel mondo la “vocazione missionaria” della Chiesa: proprio in questo anno venne, a tal fine, notevolmente aumentato il numero di sacerdoti e vescovi in Africa ed in Asia e vennero effettuate moltissime canonizzazioni e beatificazioni (tra le quali spicca quella di Bernadette Soubirous, la bambina alla quale nel 1858, nei pressi di Lourdes, apparve Maria Vergine). Il concordato tra Mussolini ed il Vaticano, che risolte tra l’altro la “Questione Romana” (il fatto che Roma fosse Capitale d’Italia e, contemporaneamente, sede del Papato), si concluse poi con la stesura dei Patti Lateranensi, l’11 Febbraio del 1929. Furono proprio le congetture espresse dai giornali a far crescere l’idea che i tre delitti (il sequestro della Giacobini e quello tentato della Leonardi, oltre all’omicidio della Biocchetta) fossero strettamente collegati tra di loro. Quindi venne coniato ad arte il termine “mostro”, parola terrifica, che il neonato regime fascista poté ben utilizzare per indirizzare l’attenzione dell’opinione pubblica su questa vicenda piuttosto che su un’altra, ben più grave per tutto il Paese, che avvenne proprio in quei giorni: il rapimento e la successiva uccisione del deputato socialista Giacomo Matteotti per mezzo di una coltellata in pieno petto ad opera (molto probabilmente) di Albino Volpi, pupillo di Mussolini ed appartenente poi alla “CEKA Fascista”, una sorta di Polizia segreta agli ordini del Duce (dopo la breve esperienza della cosiddetta "Ceka fascista”, la polizia segreta di partito voluta da Mussolini come reazione al discorso di Matteotti alla Camera del 30 maggio 1924, la polizia politica fascista finì per essere riorganizzata e potenziata a partire dalla fine del 1926 per opera del nuovo capo della Polizia di Stato, Arturo Bocchini. L'OVRA fu una componente della prima sezione di questa nuova polizia politica, che si occupava di controllare movimenti, stampa, associazioni sovversive e di stranieri). Il 30 Maggio 1924 Matteotti, deputato socialista del Polesine, concluse il suo discorso alla Camera con la frase, rivolta ai suoi colleghi di partito: “Uccidete pure me, ma l'idea che è in me non l'ucciderete mai. Io il mio discorso l'ho fatto: ora voi preparate il discorso funebre per me!”. Mai frase fu tanto profetica visto che il 10 Giugno Matteotti venne rapito appena uscito da casa sua, in Via Pisanelli, nel quartiere Flaminio, e caricato di peso su una Lancia Lambda nei pressi del Lungotevere Arnaldo da Brescia. Nei giorni precedenti, a partire dal 6 Giugno, data del ritrovamento del corpo della Biocchetta, sia nelle edizioni mattutine che pomeridiane dei giornali le notizie su Matteotti e sul suo attacco al Partito Nazionale Fascista erano state relegate a poche righe nelle pagine interne. Probabilmente già in quell’auto Matteotti venne ucciso dalla “squadra” fascista composta da Amerigo Dumini (dipendente dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri), Albino Volpi, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo ed Augusto Malacria. Ma perché Matteotti venne rapito ed ucciso così brutalmente? Bisogna risalire alle elezioni politiche del 6 Aprile 1924, che il Partito Fascista aveva vinto (con quasi 5 milioni di voti raccolti dal “listone fascista” e dalle altre liste collegate) contro le altre liste (che raccolsero circa 2 milioni e mezzo di voti). Grazie al “premio di maggioranza del 66%” i fascisti ottennero 356 seggi (più 19 delle liste collegate) contro i 161 delle liste dell'opposizione. Matteotti, originario di una famiglia veneta benestante ma da sempre contrario allo sfruttamento dei contadini da parte dei latifondisti, era iscritto al P.S.U. (il Partito Socialista Unitario, che nacque a Livorno nel 1921 dalla scissione del Partito Socialista e che diede vita anche al Partito Comunista d’Italia, sotto la guida di Antonio Gramsci), nel discorso del 30 Maggio contestò la legittimità e la legalità dei conteggi delle schede elettorali, denunciando tra l’altro l’esistenza di una oscura milizia armata appositamente allestita per scoraggiare gli avversari del regime fascista. Ecco la trascrizione di una parte del discorso (ovviamente più volte interrotto e contestato dalla “destra”): “…Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni della maggioranza. L'elezione secondo noi è essenzialmente non valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. …Esiste una milizia armata la quale ha questo fondamentale e dichiarato scopo: di sostenere un determinato Capo del Governo bene indicato e nominato nel Capo del Fascismo e non, a differenza dell’esercito, il Capo dello StatoVi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se ad esso il consenso mancassementre per la legge elettorale la milizia avrebbe dovuto astenersi, essendo in funzione o quando era in funzione, e mentre di fatto in tutta l’Italia specialmente rurale abbiamo constatato in quei giorni la presenza di militi nazionali in gran numeroDicevo dunque che, mentre abbiamo visto numerosi di questi militi in ogni città e più ancora nelle campagne, gli elenchi degli "obbligati alla astensione", depositati presso i Comuni, erano ridicolmente ridotti a tre o quattro persone per ogni città, per dare l’illusione dell’osservanza di una legge apertamente violata, conforme lo stesso pensiero espresso dal Presidente del Consiglio che affidava ai militi fascisti la custodia delle cabinei Fascisti consegnavano agli elettori un bollettino contenente tre numeri e tre nomi, secondo i luoghi variamente alternati in maniera che tutte le combinazioni, cioè tutti gli elettori di ciascuna sezione, uno per uno, potessero essere controllati e riconosciuti personalmente nel loro voto...” Matteotti termina l’arringa chiedendo l’annullamento delle elezioni. Questa sua cruda denuncia, unita al fatto che già due anni prima fu autore di uno scritto ad introduzione dell’”Indagine socialista sulle gesta dei fascisti in Italia”, pubblicato nel 1922 dalle "Edizioni Avanti !", nel quale svelava le brutali persecuzioni (minacce, agguati, esecuzioni) operate dai fascisti contro i militanti democratici nel Polesine (“…Nelle disgraziate campagne del Polesine ormai si sa che quando si batte di notte alla porta di casa, e se si dice che è la Forza Pubblica, è la condanna a morte…”), lo portò, di fatto, come da lui stesso “predetto”, alla condanna a morte da parte del Fascismo, che non poteva tollerare oltre un avversario di tale fermezza politica, anche se il Duce tentò di mostrarsi estraneo alla vicenda dichiarando: “Mi hanno gettato tra i piedi un cadavere che m’impedisce di camminareuna bufera che mi hanno scatenato contro proprio quelli che avrebbero dovuto evitarla”, riferendosi ovviamente ai suoi uomini della CEKA. In effetti "l’indagine" riportava dati gravissimi e documentati: l’elenco circostanziato di fatti avvenuti in 410 città e paesi del nord Italia; 10 sedi di giornali devastate, così come 25 Case del Popolo, 59 Camere del Lavoro, 85 Cooperative, 43 Leghe dei Contadini, 36 Circoli Operai, 17 Circoli di Cultura, 34 Sezioni Socialiste, 12 Associazioni varie, il tutto aggravato dall’elenco di 166 vittime e di 252 feriti gravi.
Ma le repressioni fasciste operavano anche nel resto dell’Italia e nella stessa Roma dove, soprattutto nei quartieri popolari, la popolazione non accettava di sottostare alle angherie dei gerarchi in camicia nera: ad esempio, durante la Marcia su Roma, i fascisti dovettero fronteggiare a Piazza Vittorio centinaia di operai che, giunti dal vicino quartiere popolare di San Lorenzo, provarono ad interromperne il cammino. Durante tutto il Ventennio Fascista
quartieri come San Lorenzo, Centocelle, Quadraro, furono continuamente presidiati dalle camicie nere del Duce, le cui incursioni non risparmiarono neanche le abitazioni di parlamentari democratici come Francesco Saverio Nitti o Giovanni Amendola, che morì dopo due mesi di ospedale a seguito di una aggressione fascista. Lo stesso papa Pio XI° era chiaramente contrario all’opportunità che la sinistra ed i socialisti si potessero alleare (come ipotizzato da De Gasperi proprio in un incontro con il Papa) e, approfittando della situazione, potessero dar vita alla costituzione di un Governo al posto di quello di Mussolini, il cui “potere forte” andava invece a genio al papa che, come detto, era in trattative con lo stesso Mussolini e, contestualmente, temeva una guerra civile in caso di delegittimazione del Fascismo; ciò era chiaramente inconciliabile con l’Anno Santo alle porte. Quindi proprio l’ingerenza e la “copertura” del Vaticano permisero a Mussolini di uscire dall’impasse in cui era finito e di consolidare la sua posizione, sia con “l’aiuto” indiretto delle opposte fazioni, che non seppero sfruttare il momento negativo del Fascismo, sia con l’aiuto “un po’ più diretto" del re. Mussolini aveva, infatti, il 17 Giugno, rimesso la propria carica di Ministro degli Interni, che ricopriva "ad interim"; in realtà aveva già pronto il suo successore, il fidato Luigi Federzoni, il quale aveva tutte le intenzioni, sotto la guida diretta del Duce, di mettere in opera tutte quelle pratiche di controllo che, camuffate da misure per garantire l’ordine pubblico, porteranno direttamente al regime fascista. Come prima cosa Federzoni esonera dal loro incarico di Capo del Servizio Stampa e di Sottosegretario agli Interni Cesare Rossi ed Aldo Finzi. Anche il direttore generale della Pubblica Sicurezza Emilio Del Bono viene messo da parte, con la scusante di essere nominato Governatore della Tripolitania (dopo essere stato da tutti accusato di aver depistato le indagini sulla scomparsa di Matteotti); al suo posto si insedia Arturo Bocchini, il cui soprannome, “Viceduce”, la dice lunga. Viene epurato anche il Questore di Roma Bertini, sostituito da Adolfo Perilli, che disporrà una taglia di 50.000 Lire per chiunque darà notizie certe sul mostro, e promette promozioni speciali per il poliziotto che riuscirà ad arrestarlo. Mussolini, così, in via diretta o indiretta, riesce ad impartire ordini perentori atti a regolare la vita pubblica e privata dei cittadini, tanto che venne coniato il detto “Mussolini ha sempre ragione”. Questi veri e propri “ordini del vivere civile” erano prontamente fatti rispettare dalla polizia del Ministro dell’Interno Federzoni (e dalle squadre in camicia nera del segretario del Partito Fascista Farinacci) che effettuava quotidianamente, come detto poche righe fa, perquisizioni domiciliari, arresti e chiusure coatte di circoli ed esercizi sospettati di alimentare e sostenere attività sovversive; vennero chiusi giornali dell’opposizione e, su quelli controllati dal regime, per dare al Paese una parvenza di raggiunta serenità, sparirono tutte le notizie di cronaca “nera” o “gialla”. Malgrado ciò Mussolini fu vittima, tra il 1925 e il 1926 di ben quattro attentati, dai quali però uscì fisicamente sostenzialmente illeso ma psicologicamente, anche agli occhi dell’opinione pubblica, rafforzato.
Malgrado tutte queste modalità di controllo, da parte del Fascismo sulla vita del Paese, le indagini sul rapimento Matteotti (non ne era ancora stato scoperto l’omicidio, per quanto tutti quello preventivavano fosse l’epilogo della vicenda, anche perché su “Il Mondo”, il 13 Giugno Giovanni Amendola aveva titolato in prima pagina: “L’on. Giacomo Matteotti misteriosamente sparito”) subirono una svolta quando il portiere di uno stabile (il regime aveva incaricato i portieri dei condomini borghesi di effettuare un’opera di “vigilanza civica”, che in questo caso gli si rivolse contro) denunciò alla polizia di aver notato una “Lancia” che si aggirava in modo sospetto nei pressi dell’abitazione del deputato socialista. La Targa della Lancia era 55-12169 ed il modello era una Lambda. Essendo pochi i mezzi in circolazione a quei tempi non fu difficile trovare l’autovettura in un garage del quartiere Flaminio. Ed all’interno del mezzo erano ancora chiari i segni di un accoltellamento. Fu quindi facile risalire, dal possessore del mezzo, ai reali mandanti dell’agguato: Cesare Rossi, capo dell’Ufficio Stampa di Mussolini, e Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del Partito Nazionale Fascista. Malgrado non fosse ancora stata provata l’uccisione di Matteotti, anche se pochi dubbi persistevano in proposito, una gran folla si radunò in Piazza Colonna per manifestare contro il fascio. Il luogo dell’aggressione venne prontamente transennato e presidiato, visto che molti simpatizzanti politici di Matteotti vi andavano a deporre fiori e fogli di rivendicazione politica. Malgrado ciò ogni sera le forze dell’ordine erano costrette a rimuovere fiori, nastri e fogli che, nel corso della giornata, erano deposti nelle vicinanze perfino da operai che si recavano sul luogo per mezzo di barconi, eludendo la vigilanza via fiume.
Il 27 Giugno alcuni deputati di vari partiti, in particolare Cattolici e Socialisti in dissenso con i Comunisti, decisero di non partecipare ai lavori della Camera per la costituzione del nuovo Governo. Ma le forze dell’opposizione, per quanto concordemente avverse al Fascismo, come detto, erano in continua polemica tra di loro e non fu mai veramente decisa ed unitaria la loro contestazione al partito del Duce, anche perché ad opporsi al Fascismo si temeva di fare la fine di Matteotti, Gobetti o Amendola. Ed il Duce ne approfittò l’8 Luglio facendo approvare al Consiglio dei Ministri il “Decreto restrittivo della libertà di stampa”: da "oggi" sui giornali verranno riportate soltanto notizie gradite al regime fascista, con il divieto pressochè assoluto di pubblicare notizie di cronaca nera. Il 12 Agosto, con la Camera chiusa per la pausa estiva, fu fatta ritrovare lungo la Via Flaminia, a diversi chilometri da Roma, la giacca insanguinata di Matteotti, le cui ossa vennero ritrovate a poca distanza, nel territorio di Riano, il 16 agosto. Il corpo del deputato era stato sommariamente seppellito ed era quindi stato oggetto delle “attenzioni” di animali selvatici e del gran caldo, che ne aveva accelerato la decomposizione. Il testamento morale di Matteotti fu il discorso che avrebbe dovuto pronunciare proprio il giorno successivo al suo rapimento e nel quale avrebbe aspramente denunciato la corruzione del regime fascista in merito ad un accordo, la “Convenzione Sinclair”, con una compagnia petrolifera americana appartenente alle “sette sorelle”. Con questa convenzione Mussolini assegnava alla "Compagnia Sinclair Oil" il monopolio della ricerca petrolifera in Italia e nelle sue colonie africane; l'accordo, ovviamente, era stato raggiunto tramite una cospicua tangente versata, attraverso Arnaldo Mussolini, nelle casse del “Popolo d’Italia”. La compagnia americana chiedeva di tenere nascosto agli italiani il ritrovamento di giacimenti in Libia, in modo che non entrassero in concorrenza produttiva con i propri.
Mussolini, oramai nel culmine dell’onda che lo porterà poi al potere (pur se le sue frasi “Cosa fa questa CEKA? Cosa fa Dumini? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare…” potevano essere state travisate ed amplificate da Marinelli, il capo della Polizia Segreta Fascista, cui le rivolse e che, tramite Dumini, ordinò di fatto il rapimento e l’uccisione di Matteotti), si assumerà, il 3 Gennaio 1925, la responsabilità storica e politica del delitto Matteotti e di tutto quanto accaduto sotto il suo governo: “…dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto… Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda !... Se il Fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! ...Se il Fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere. ” E, in conseguenza, o a conclusione di ciò, il 4 Gennaio 1925 i prefetti di tutte le città italiane ricevono l’ordine di proibire qualunque pubblica manifestazione e di vigilare su circoli ed organizzazioni sospette, con l’ordine di reprimere con la violenza ogni possibile resistenza. Tutto questo ci fa capire come l’opinione pubblica potesse a quel tempo dipendere dal volere del potere forte del Duce ed il fatto che un “mostro” potesse tranquillamente rapire ed uccidere delle “figlie del popolo”, come Mussolini stesso le definì, poteva essere un valido diversivo per distogliere le attenzioni dagli attacchi politici che Mussolini stesso riceveva continuamente dall’opposizione. La dittatura fascista ha di fatto inizio da questa data.
Così il Duce stabilì la linea guida che il Fascismo avrebbe dovuto seguire: assicurare i malviventi alla giustizia, dimostrando al popolo di possedere le carte necessarie per ripristinare l’ordine e la sicurezza sociale (in poche parole il totale asservimento e controllo del popolo stesso), fino ad arrivare, vero nocciolo della questione, approfittando del sentimento di “vendetta” che il “caso Girolimoni” aveva suscitato negli animi del popolo, al ripristino della pena di morte, richiesta a gran voce dal popolo stesso per l’assassino delle bambine, salvo poi "estenderla" per utilizzarla a scopi di repressione politica.
In linea di massima il “caso Girolimoni” stride in questo contesto, in quanto va a contrastare totalmente la linea ideologica del Fascismo, che con la restrizione della libertà di stampa ed il totale controllo delle notizie cercava di celare tutte quelle negative e di cronaca nera al popolo, per ammansirlo e tenerlo sotto controllo. Addirittura, come detto qualche riga fa, su “La Tribuna” del 7 Giugno 1924 si fa un preciso identikit, chiaramente non corrispondente alla realtà, del mostro dipingendolo come un “…giovanotto vestito di grigio di cui si conoscono i precisi connotati”, tanto per dimostrare all’opinione pubblica che oramai era imminente la cattura del mostro.
Da quanto esposto possiamo ben comprendere come in effetti, nella Roma del tempo, i mostri fossero ben due: quello che materialmente rapiva, stuprava ed uccideva le bambine ma anche quello che, psicologicamente e non solo, zittiva ogni voce contrastante il regime con la violenza e la repressione: Mussolini. Dopo la prima guerra mondiale il Paese era allo sbando, e la sua classe politica non gli era evidentemente da meno: ecco, quindi, che la “figura forte” di Mussolini, con il beneplacito del Re, riesce ad ergersi a guida autoritaria del Paese. Il re, infatti, conferisce a Mussolini la carica di capo del Governo; ed ecco che su Mussolini, partito dalla Romagna con il titolo di maestro elementare, iniziano a comparire pubblicazioni, biografie, manifesti celebratori: viene, di fatto, eretto a personaggio carismatico in grado di risollevare (forse) le sorti dell’Italia e di riportarla agli antichi splendori. Ma la gente, pur essendo succube della sua costruita personalità, intimamente non si fida di quel despota, che si fa ritrarre sempre con la mascella pronunciata a configurare una maschera irreale ed in fondo ridicola. Il vero mostro senza cuore, ben più temibile di Girolimoni, che va dritto per il proprio cammino è proprio il Duce. L’”Impero”, nel suo numero del 12 Maggio 1927, addita Girolimoni come “...l’orco della favola, è lui l’uomo nero...”; ma i veri “uomini neri” che imperversano nelle vie di tutta Italia, distruggendo Case del Popolo e bastonando o riempiendo di olio di ricino chiunque gli si parasse dinanzi opponendovisi, sono proprio gli uomini del Duce, con le loro camicie nere piene di simboli terrifici e tribali quali teschi, ossa incrociate e fasci littori.
Intanto il mostro miete, come vedremo poi, una nuova vittima adulta (e forse più di una): ai primi di novembre il soldato Luigi Balzo De Mucci, mentre si reca al Forte Aurelio dove presta servizio, nota in Piazza San Pietro un uomo che, dopo aver offerto dei dolciumi ad una bambina, la strattona violentemente redarguendola. Avvicinatosi alla coppia il soldato tenta di far desistere l’uomo dal suo comportamento nei confronti della bimba ma viene preso a male parole e riceve anche qualche ceffone. Con il militare a terra l’uomo si da alla fuga, abbandonando la bambina. C’è da specificare che il soldato era sofferente di una sindrome nevrastenica, e per questo tenuto in cura psichiatrica, come prova un suo scritto proprio di quei giorni al padre “Papà carissimo, i disturbi nevrotici si attenuano sia nella frequenza che nell’intensità…” (Balzo De Mucci, citazione di lettera al padre del Novembre 1924). Nei giorni successivi, passando di nuovo nei pressi del colonnato del Vaticano, il soldato nota ancora l’uomo mentre cerca di adescare dei bambini offrendogli ora mele ora dolciumi ma, timoroso e memore di quanto accaduto la prima volta, passa oltre. Ma, il 24 Novembre, dopo che l’uccisione di Bianca Carlieri era riuscita a far passare quasi sotto silenzio la notizia del rapimento di Matteotti, viene rapita una terza bambina, Rosina Pelli. Mentre la madre, convivente con un uomo sposato, Giovanni Bonardo, si era fermata, presumibilmente per allattare la sorellina Norma, sotto il colonnato di Piazza San Pietro, Rosina scorrazzava per la piazza insieme all’altra sorella, Olga. Così descrisse la scena il “Corriere della Sera” del 26 novembre: “Ecco i particolari del delitto: in via del Colonnato, una delle tante del quartiere del Borgo, abita da tempo la famiglia del meccanico Giovanni Bonardo, composta dalla moglie (dato ancora una volta inesatto) a nome Beatrice Pelli, e dalle figlie Olga di anni 5, Rosina di anni 4 (2 e non 4, altro dato inesatto) e Norma di soli 25 giorni. Ieri nelle prime ore del pomeriggio, la Pelli aveva portato le bambine a prendere il sole in piazza San Pietro presso il colonnato del Bernini. Mentre la donna, che teneva in braccio la neonata, si intratteneva a parlare con alcune amiche, le piccole Olga e Rosina si trastullavano a pochi passi dalla mamma. A un certo punto la Pelli, non vedendo più la piccola Rosina, si alzò e dopo averla inutilmente chiamata, si pose a cercarla fra la selva delle colonne del portico. Dopo pochi minuti di inutili ricerche, in preda all'ansia, la povera madre cominciò a percorrere in lungo e in largo la piazza, chiamando ad alta voce la piccola. Ma la bambina era scomparsa. Vennero minutamente visitate le case e i negozi, ma tutto fu inutile. Della piccola Rosina nessuno sapeva dare notizia”. In effetti, nella circostanza, alcune donne notano nei paraggi un uomo con cappello e cappotto in atteggiamento che verrà poi definito “sospetto”, ma non vi prestano ulteriori attenzioni. In particolare Virginia Stefanini, una delle donne in compagnia delle quali era Beatrice Pelli, aveva notato un giovane sulla trentina (questo dato appare diverso da tutte le altre testimonianze oculari) che indossava cappello e cappotto marroni e che si aggirava in modo sospetto nei pressi del colonnato. Il corpo della bimba venne ritrovato il giorno dopo dal muratore Riccardo Papini vicino una fornace di mattoni al Prataccio della Balduina, anche in questo caso in aperta campagna e, immancabilmente, con i segni dello stupro e dello strangolamento e, quasi una firma dell’assassino, senza la scarpa al piede destro. Un altro muratore, Alfredo Giacomini, testimoniò che la sera precedente, nei pressi della Balduina aveva notato un uomo con cappello e cappotto marroni che trascinava per mano una bambina che gli diceva: “Pòrtame a casa mia! So’ stanca, nun ce voglio sta’ più!
Il giornale “La Tribuna”, andando in direzione diametralmente opposta a quelli che erano i “suggerimenti” del Fascismo di non parlare di cronaca nera e, se, nel caso, di farlo in modo molto “soft”, per non far “agitare” troppo la popolazione dandole spunti di ribellione, così descrisse l’abominevole scena: “Stamane alle sette circa, il mistero che gravava sulla scomparsa di Rosina Pelli è stato diradato d'un colpo. Infatti il fornaciaro Giuseppe Papini, uscendo da casa insieme alla moglie Apollonia, dopo aver percorso circa trecento metri hanno scorto a terra, tra alcuni cespugli di cardo, il corpicino di una bimba quasi completamente denudato. La poverina giaceva bocconi con la testa dai riccioli biondi piegata leggermente verso sinistra, quasi completamente nuda, e ricoperta soltanto dalla camicina strappata in più parti e da una maglietta. Una delle gambine era completamente nuda, mentre l'altra calzava ancora un pedalino nero e un sandalo. Alle 12 il dottor Impallomeni, medico fiscale, ha esaminato il cadaverino riscontrando vastissime lacerazioni ai genitali. Si è constatato anche che la bimba presenta delle lividure al collo e alla bocca, cosa che fa pensare a una mano che si sia poggiata violentemente sul visino per impedire alla piccola di urlare. I magistrati hanno accertato anche che la piccola era stata ancor meglio immobilizzata poiché le manine appaiono legate con un brandello di camicia”. Ed ancora lo stesso giornale così si rivolge al mostro: “Un delitto orrendo, uno di quei delitti che commuovono d'istinto l'anima delle folle, è stato consumato stanotte da un essere inqualificabile che usurpa all'umanità la qualifica di uomo. Che cosa ha di umano, infatti, codesto bipede immondo? Nulla. Non ha luce d'intelletto, non ha anima, non ha senso, nulla: l'amore, la pietà, le lacrime non hanno mai turbato il suo mal costrutto cuore: codesto essere vivente, che porta in giro la morte, celata in veste umana, non ha nemmeno Dio: è un morto-vivo che cammina, un fantasma che si muove in mezzo a noi senza che nessuno riesca a vederlo, un mostro insidioso e finora ignoto che ogni tanto terrorizza le mamme e le bimbe di Roma. Pensate: nel pomeriggio, vicino al gran tempio di Dio, questo miserabile adocchia la sua vittima. Chi sa come, chi sa con quali blandizie, chi sa con quali lusinghe convince una bimba di due anni - la fiducia più cieca, l'innocenza più pura - la tiene nelle braccia accarezzandola, baciandola, le avrà regalato dei dolci, le avrà detto tante menzogne, e tutto ciò mentre in quel cervello il pensiero pensava al delitto orrendo e pregustava l'atroce tortura e lo strazio e l'infamia. E poi l'abbandono, il ritorno a casa, il sonno. Avrà dormito stanotte il bruto? L'avrà punto ancora l'immonda gioia o il rimorso? E oggi? Oggi che il mondo gli grida in faccia, con tutto lo schianto dell'umana dignità offesa: assassino ! che fa codesto miserabile e vile, che si nasconde pauroso e tremante? che fa?"
La polizia, pur avendo raccolto l’identikit di un uomo distinto e ben vestito (e questa sarà una costante in tutti i rapimenti, anche se nessuno riuscì a vederlo bene in volto o a memorizzarne i connotati), aveva indirizzato le sue indagini esclusivamente nella direzione degli ambienti dei vagabondi, che vennero fermati ed identificati in gran numero nei giorni seguenti, facendo, anche questa volta, un buco nell’acqua. Il giornale “La Voce Repubblicana”, facendosi voce del popolo, attaccò nuovamente le forze dell’ordine dal punto di vista politico: “Vien fatto di pensare con amarezza che se ieri, invece di una madre disperata, si fosse recato in Questura un qualunque confidente a narrare che quattro “sovversivi” stavano bevendo in aria sospetta dentro un’osteria, ai funzionari sarebbero spuntate le ali ai piedi. La verità è che la Polizia romana è completamente assorbita dal compito politico assegnatole da un governo che trema continuamente per il suo avvenire. La polizia ha centinaia e centinaia di cittadini, di galantuomini, da sorvegliare e non può certamente correre dietro ai delinquenti… Tutti i mezzi di cui dispone la polizia romana sono dedicati allo scopo politico che angustia i sonni del signor questore, mentre l’organizzazione del servizio per i reati comuni è appena degna di un piccolo capoluogo di provincia”.
Ai funerali della piccola Rosina partecipò addirittura la regina Elena di Savoia, che pose una lapide sulla tomba, al cimitero del Verano.


29 luglio 1920 - 24 novembre 1924
Qui dove giace
Rosina Pelli
vittima inespiabile
di nefanda barbarie
il pianto perpetuo del popolo
lavi l'orrendo oltraggio
gigli e rose ricordino
l'innocente anima
ascesa al regno degli angeli
Elena di Savoia regina d'Italia
Q.M.P.

All’inizio di Dicembre del 1924 una certa Matilde Canepa, forse suggestionata dagli incitamenti rivolti dai giornali ai popolani circa il dover denunciare comunque tutti quegli individui che, per vari motivi, potevano essere ritenuti sospetti nei loro comportamenti o atteggiamenti ("C’è qualcuno che sa, che ha visto un individuo comunque sospettabile? Parli, denunci, accusi: e naturalmente senza leggerezza! Il segnalare un uomo turpe, anche se non sarà poi il carnefice delle due piccole martiri andrà a vantaggio delle nozioni della nostra polizia (Il Giornale d’Italia, 28 Novembre 1924), si reca al commissariato per denunciare un tal Enrico Mancinelli, che era solito frequentare la chiesa di San Giuseppe, alla Balduina, nella quale aiutava il sagrestatno occupandosi delle pulizie e del rifornimento delle candele, che provvedeva anche a spegnere ogni sera. L’accusa fattagli è relativa alle carezze che l’uomo era solito fare sulla testa dei bambini che si recavano in chiesa. L’uomo viene quindi fermato e sottoposto a diversi interrogatori: suggestionato ed impaurito, a causa dell’interrogatorio incalzante e delle minacce fisiche da parte degli agenti, si addossa la colpa dell’omicidio della Pelli ma, come l’Imbardelli, la sua deposizione è piena di contraddizioni e la polizia si convince, anche in questo caso, dell’innocenza del sospettato. La “Tribuna”, il 4 Dicembre, accusa giustamente: “…Imbardelli, Mancinelli… quanti altri “elli” scapperanno fuori nel fatale periodo in cui il nuovo misfatto contro la piccola Rosina Pelli compirà la sua parabola, per scendere, al solito, nelle tenebre del dimenticatoio?”. L’uomo venne quindi immediatamente rilasciato e sembra, ma non ci sono conferme abbastanza fondate di ciò, le fonti in mio possesso sono discordanti, che una volta tornato a casa si uccise per la vergogna di essere stato accusato di essere l’assassino delle bimbe.
Nel frattempo il soldato Balzo De Mucci, tornato in licenza al suo paese, in Puglia, sfogliando il “Giornale d’Italia” del 28 Novembre, legge la notizia dell’uccisione della Pelli e l’esortazione alla cittadinanza di rendere alla polizia qualunque notizia possa essere riferita al mostro. Dopo qualche giorno di sofferti ripensamenti, il 9 Dicembre racconta ad un cronista del giornale le sue esperienze vissute in Piazza San Pietro. Ma ancora non si decide di rivolgersi alla polizia, forse per timore della vendetta dell’uomo che ben lo saprebbe identificare. Ma non può restare con le mani in mano: il peso psicologico del suo segreto è troppo, soprattutto per la sua mente inferma. Prende allora carta e penna e scrive una lettera, che verrà ritrovata nel suo armadietto in caserma, e nella quale, rivela il suo segreto (cosa che, in realtà, aveva anche fatto in precedenza ad alcuni commilitoni) e la sua intenzione di togliersi la vita con un colpo di moschetto al ventre. Cosa che effettivamente farà. Portato al Policlinico Umberto I°, durante l’estrema unzione, sussurrerà al prete “ Mi pento, mi pento tanto di quello che ho fatto”, riferendosi forse al fatto di aver ritardato la denuncia del potenziale mostro, non avendo così impedito l'uccisione della Pelli?
Come detto il 5 Gennaio del 1925 si era chiuso il cerchio della macchinazione di Mussolini per raggiungere il potere; il 12 Febbraio venne eletto segretario del Partito Nazionale Fascista Roberto Farinacci. Alcuni rappresentanti dell’opposizione si recarono nuovamente dal Re per chiedere la destituzione di Mussolini ma il re, timoroso anche lui di una possibile guerra civile, rifiuta; così come rifiuta di firmare a Mussolini stesso, che glielo presentò, un decreto di scioglimento delle camere con la data in bianco. Decreto che avrebbe permesso a Mussolini di sciogliere il Parlamento quando lo avrebbe ritenuto necessario: ma c’era il rischio che il Duce se ne sarebbe potuto servire per indire nuove elezioni, ancora più “controllate” dal P.N.F. e dalle Camicie Nere o, addirittura, che non lo avesse ricostituito più, divenendo di fatto capo di Stato.
In questo clima di terrore il 30 Maggio 1925 il mostro rapì ed uccise la quarta bimba: un uomo, anche stavolta di aspetto distinto, vestito di grigio, con un cappello scuro e baffi biondi, tentò di adescare la piccola Anna Del Signore cercando di attirarla con un sacchetto di cioccolatini, proprio davanti il Cinema "Famiglia", in Piazza Castello, tra Castel Sant'Angelo e il Vaticano. Dopo la fuga della bambina l’uomo riuscì ad adescare Elsa Berni, di sei anni, nell’adiacente Via di Porta Castello, ai confini del Rione Borgo, mentre gioca vicino ad una fontanella. Come per le altre bimbe il suo corpo senza vita verrà ritrovato il giorno dopo dallo spazzino Luigi Santini, lungo la sponda del Tevere, nei pressi di Ponte Mazzini, sul Lungotevere Gianicolense, con i soliti segni dello stupro e dello strangolamento. Sotto le nuove direttive del Duce questa volta i giornali non diedero all’avvenimento il dovuto riscontro e, come scusante, “La Tribuna”, uno dei giornali di regime, il 2 Giugno 1925 così scrisse: “A simili delitti che umiliano profondamente la nostra coscienza di uomini, convengono meglio il silenzio e la meditazione che la ricerca affannosa del dettaglio da offrire al palpito irrequieto dei cuori“. Intanto, come detto, sulla testa del mostro era stata messa una taglia di 10.000 lire, poi portata a 50.000 dal Questore Perilli: questo, però, non fece che peggiorare la situazione visto che molti popolani, attirati dal denaro della taglia, si recarono nei commissariati per denunciare degli innocenti creduti il mostro. Tra la polizia che continua a brancolare nel buio ed il popolo guardingo e sospettoso il mostro torna a colpire il 26 Agosto del 1925 rapendo Celeste Tagliaferri, una bimba di soli 18 mesi, addirittura rapendola direttamente dalla sua culla, in una casa in Via dei Corridori (a circa 50 metri da dove venne rapita Rosina Pelli ed a neanche 300 dal luogo del rapimento della Berni). La bimba verrà ritrovata il giorno dopo lungo i prati della Via Tuscolana, sanguinante ma ancora viva, da due operai della zona. Ma la sua agonia viene prolungata di poco: morirà il 28 Agosto all’ospedale San Giovanni.
Il 12 Febbraio 1926 è la volta della seconda sopravvissuta al mostro (anche se, come vedremo, il destino si accanirà contro la prima, Armanda Leonardi): Elvira Coletti, di sei anni, viene ritrovata sulla riva del Tevere, sotto Ponte Michelangelo, dopo essere stata violentata ma, prima di essere strangolata, riesce, urlando, a mettere in fuga il mostro.
Per la verità le cronache del 1926 riporteranno notizie di almeno altri due stupri ai danni di bambine, che poi saranno ritrovate vive, ma i giornali avevano ricevuto l’ordine di tacere su fatti particolarmente efferati di cronaca nera al fine di non creare ulteriori malumori nella popolazione, e di più non sappiamo su di loro. Tutto sembra quindi passato ma, dopo oltre un anno di silenzio, il 12 Marzo 1927, il mostro torna a colpire, e lo fa, per colmo di accanimento, contro Armanda Leonardi, la piccola di 5 anni che il 4 Giugno del 1924, all’età di soli 2 anni, era scampata al suo aguzzino in Via Paola mettendosi a piangere. Per la seconda volta il mostro si accanisce contro di lei e la rapisce in Piazza del Fico, a pochi metri dalla sua casa in Via delle Vacche 6, mentre gioca con il fratello Francesco. Il piccolo cadavere verrà rinvenuto da una domestica, il mattino successivo, ai piedi dell’Aventino, presso il ristorante Castello dei Cesari, in Via di Santa Prisca: ovviamente uccisa con le stesse modalità dei delitti precedenti.
A questo punto, dopo l’ennesimo assassinio di una bimba il Duce in persona, andando palesemente contro i suoi stessi ordini, dati alla stampa poco tempo prima, “comanda” a gran voce l’arresto del mostro, non potendo più tollerare il fatto che, da oramai da oltre 3 anni, la sicurezza pubblica “imposta” dal regime fascista riceva simili destabilizzanti colpi di maglio ad opera di quello che può continuare ad essere considerato un fantasma. E, con l’occasione, inasprisce il giro di vite contro chiunque possa rappresentare una minaccia per il regime, spedendo in galera o al confino centinaia di cittadini, politicizzati o meno. L’“Impero”, nell’edizione del 15 Marzo 1927, così riporta le parole del Questore Angelucci: “Tutti gli ambienti debbono essere permanentemente vigilati: dalla taverna, dal ricovero più umile, all’appartamento signorile, al ritrovo mondano ed elegante. Una sorveglianza continua ed implacabile dovrà esercitarsi su tutti gli individui tendenti a delitti del genere, tutti coloro sui quali si possono nutrire sospetti, sia pure vaghi, dovranno essere pedinati e seguiti nelle più intime abitudini”. Così decine di pattuglie, in divisa o in borghese, vennero disseminate nelle strade dei Rioni Borgo, Ponte, Prati, Trionfale e Sant’Eustachio con lo scopo di controllarne minuziosamente la vita e le abitudini dei residenti e procedendo anche a frequenti perquisizioni in case private o negozi. Addirittura gli agenti in borghese venivano fatti accompagnare da bambinette, con l’evidente ingenuo scopo di poter attirare le attenzioni del mostro su di esse e poterlo arrestare, se vi si fosse avvicinato per irretirle.
A questo punto della storia, purtroppo per lui che ne avrà la vita sconvolta, entra in scena il “sor Gino”, il trentottenne fotografo/mediatore/procacciatore Gino Girolimoni, che esattamente dal 2 Maggio del 1927 darà un corpo ed un aspetto a quello che finora era stato un semplice “fantasma”: il Mostro di Roma.

Gino Girolimoni alla fine degli anni '50
La sua sfortuna inizia il 13 Marzo del 1927, giorno del ritrovamento del corpo di Armanda, quando l’oste Giovanni Massaccesi, accompagnato dagli altri testimoni del fatto, Bruno Verzilli e Maria Alessio due suoi dipendenti, e da suo figlio Gino, saputo del fatto, si reca al commissariato di Borgo sostenendo che la sera precedente, più o meno all’ora in cui Armanda è stata rapita, un uomo, con una bambina per mano, si era presentato nella sua osteria, in Via Giovanni Giraud, chiedendo da bere. In verità la figura dell’uomo entrato in osteria è completamente diversa da Girolimoni (che non aveva neanche i baffi come, invece, il Massaccessi affermò nella sua denuncia, "frittata" che venne “girata” contro Girolimoni a comprovarne le, presunte “abili capacità di camuffamento”), ma, quando nel commissariato si presenta anche l“onorato” ingegnere Pacciarini, residente in Via Tibullo, proprio di fronte l’abitazione di Girolimoni, in Via Boezio, affermando che “un tipo sospetto su una Peugeot verde” importuna da circa un mese la sua domestica dodicenne (ma che ne dimostrava appena 8 o 9 per colpa di una forma particolare di rachitismo), Olga Nardicchioni, gli investigatori fanno “uno più uno” ed organizzano degli appostamenti in zona per procedere all’arresto del sospettato. Proprio l’onorabilità dell’ingegnere sembra essere una garanzia della fondatezza delle sue accuse contro il Girolimoni che, si pensa, proprio utilizzando la sua auto potrebbe aver trasportato i corpi delle bambine in luoghi tanto lontani da quelli dove avvennero i rapimenti. Un appostamento effettuato in Via Tibullo, dove il Girolimoni avvicinò di nuovo la piccola domestica con il reale intento di scambiare corrispondenza amorosa con la moglie dell’ingegnere, per la quale la bambina faceva da tramite, diede le definitive conferme agli inquirenti ed il suo arresto venne eseguito in Via Frattina il 2 Maggio 1927, all’uscita dallo studio di un avvocato.
I rapporti dei poliziotti, che pedinarono Girolimoni e che gli certificarono l’atto di arresto, parlarono di lui come di uno che: “...aveva un aspetto oltremodo turbato: arrossiva ed impallidiva continuamente, era agitato da un notevole tremito nervoso”, e:
Il “Mostro” cominciò a far cenni alla bambina, che fingeva di passeggiare (!). Discese quindi dall’automobile per avvicinarla e cercò di ghermirla, ma ella ancora gli sfuggì. Il Girolimoni, contrariato, si era come trasformato in viso: aveva gli occhi iniettati di sangue, il viso paonazzo. Fallito ancora una volta il tentativo e spettando forse di essere spiato, lo sconosciuto rimontò in macchina e scomparve”, e ancora:
“…- Venga con noi – All’ingiunzione l’uomo impallidì. Sbarrò gli occhi, due stranissimi occhi sfuggenti ed obliqui, ed il suo corpo fu scosso da un tremore invincibile. Smarrito, balbettò alcune parole che gli uscivano rauche dalle labbra illividite. – Che volete? Chi siete ? - ...L’uomo sembrò cadere di schianto a terra privo di sensi. Si lasciò afferrare e trascinare su un’automobile alla volta del commissariato di Borgo”.
Dopo l’arresto di Girolimoni l’oste Massaccesi venne convocato in Questura per effettuare il riconoscimento del mostro: ovviamente, attratto soprattutto dalla taglia di 50.000 Lire, l’oste confermò che l’uomo che era entrato con una bambina nella sua osteria il 12 marzo era sicuramente il Girolimoni". Successivamente anche la bambina Anna Del Signore, in un riconoscimento diretto, anche se dopo una iniziale titubanza, riconobbe in Girolimoni l’uomo che tentò di adescarla, e così lo riconobbero anche i due lavoranti dell’osteria, il Verzilli (“Ti ricordi che volevi il caffè e poi ti accontentasti di bere un bicchiere di vino? Ricordo che prendesti il denaro dalla tasca sinistra dei pantaloni e che spesso portavi al viso un fazzoletto per asciugarti un foruncolo che buttava sangue...”) e la sguattera Maria Alessio, che presumibilmente si erano accordati con l’oste circa la spartizione della taglia. Sui giornali venne data “finalmente” grande eco all’arresto del Mostro e, in particolare, l’"Agenzia di Stampa Stefani” (fondata nel 1853 su iniziativa di Cavour e divenuta poi voce ufficiale del Regime Fascista, fino alla caduta della Repubblica di Salò nel 1945), il 9 Maggio utilizzò, sotto evidente “dettatura”, queste parole: “Le incessanti e febbrili indagini per la scoperta dell’autore degli assassinii di Leonardi Armanda e di altre bambine, condotte silenziosamente, ma tenacemente, sotto la personale direzione del Questore di Roma, sono state coronate da pieno successo. Dopo una lunga serie di appostamenti e osservazioni, l’assassino, raggiunto da un cumulo di elementi di prova, che appaiono irrefragabili, è stato identificato e arrestato, Egli è il mediatore Girolimoni Gino, nato il 1° Ottobre 1889 a Roma, dove ha vari appartamenti. Precedentemente ha dimorato nei distretti di Borgo e di Ponte, vale a dire nella zona dei delitti. Vero tipo di degenerato, si è potuto accertare durante il periodo in cui è stato sottoposto a pedinamento, cha ha un’abilità davvero eccezionale nell’eclissarsi dopo tentativi di adescamento, ricorrendo anche al travisamento, come risulta da numerose fotografie trovate in uno dei suoi appartamenti.
Le foto "incriminate" con Girolimoni "travestito"
Procedutosi al suo arresto, l’assassino, sottoposto a stringenti interrogatori, ha mostrato il più ripugnante cinismo, negando sempre e dimostrando quell’audacia e quella scaltrezza che aveva già dimostrato nei suoi orribili delitti. Ma contro di lui stanno prove schiaccianti, e particolarmente gli atti di ricognizione eseguiti con le numerose persone che lo avevano precedentemente veduto e che lo hanno riconosciuto senza possibilità di equivoco e di inganno”. E “L’Impero”, dopo il titolo a tutta pagina “Gino Girolimoni, l’osceno martoriatore di bambine, è stato arrestato – La vita, la figura, le abitudini e i delitti del tipico degenerato”,



rincarò la dose puntando sui “sentimenti di padre del Duce” per coinvolgere maggiormente l’animo della succube popolazione: “Ancora una volta la volontà del Duce, personalmente e recisamente manifestata, ha trovato tenaci e fedeli esecutori. Dal giorno in cui Benito Mussolini, rabbrividendo nelle più profonde fibre del suo tenerissimo cuore di padre, disse: "Voglio che l'immondo bruto venga arrestato", tutti ebbero la convinzione assoluta, incrollabile, che il mostro non sarebbe sfuggito dalle maglie della rete, e tutti attesero fiduciosi, senza impazienza, senza commenti, che il comandamento del Duce venisse eseguito”.
Da “Il Giornale d’Italia” del 10 Maggio 1927: “Adesso che il misterioso rapitore di bimbe Gino Girolimoni è stato identificato, raggiunto, arrestato e smascherato, occorre studiare la vita dello strano e misterioso individuo. Uno degli elementi più importanti che si sono rilevati intorno al suo carattere è innegabilmente quello di una spiccata tendenza al trasformismo. E' noto come il mediatore avesse un guardaroba addirittura eccezionale, costituito da numerosissimi vestiti dei più diversi colori e delle più varie fogge e da una vera collezione di cappelli. Ma la tendenza del Girolimoni alla trasformazione della sua figura, si rileva da un'altra più precisa constatazione. Nei cassetti dei mobili della sua abitazione il Girolimoni conservava una serie di sue fotografie nelle quali il rapitore di bimbi amava farsi ritrarre nei diversi atteggiamenti e nelle più disparate fogge. Si è pensato che l'assassino, attraverso tali fotografie, compisse con la sua intelligenza acuta e pronta un preciso studio sulla sua fisionomia e sul suo aspetto, per accertarsi se fosse più o meno riconoscibile con un vestito o con l'altro, con un cappello duro o con un copricapo sportivo...". Congetture assurde: come se, per rapire le bimbe, Girolimoni si travestisse da Robin Hood o da cavallerizzo per “passare inosservato” !...... D’altronde la stampa con Girolimoni non si comportò di certo in maniera irreprensibile: il ritratto che ne fece, dopo l’arresto, fu impietoso ed indirizzato alla più depravata e scandalistica delle descrizioni: “…La legge non può essere indulgente: l’uomo che ha stroncato l’esistenza di quattro bambine (in realtà 5) deve morire. L’assassino non può godere ancora del sole e della luce: deve essere soppresso così come è necessario sopprimere le cose infette, le cose che diffondono la morte e l’orrore…”, da “La Tribuna” del 10 Maggio 1927, e, ancora: “Certamente l’arrestato è una delle più sinistre e spaventose figure di delinquenti che l’umanità ricordi, ed è con terrore e raccapriccio infiniti che questo viene constatato(“Il Messaggero”, 11 Maggio 1927). Tra l’altro, non essendo stato riconosciuto dal padre ed avendo vissuto fino all’età di 15 anni in orfanotrofio, Girolimoni, sempre secondo i deliranti articoli dei giornali, ha tutte le caratteristiche per poter essere rancoroso verso quelle bambine amate dai genitori, quindi un potenziale stupratore assassino.
Il Mostro aveva per anni terrorizzato la popolazione romana: ma, più che per i rapimenti e le uccisioni delle bambine, dopo averle probabilmente più “sbuzzate” che stuprate, (NdA: "sbuzzare" = “ferite nel ventre”; un termine che indica un tipo di sventramento tipico del pollame. Nel film di Damiani il regista inserisce la figura di "Fiaccarini", il preparatore delle salme dell'obitorio, e gli fa dire: "...Bisogna intènnese... Violenta' 'na bambina de cinque anni è impossibile... Dicheno violenza carnale, tanto pe' ddi', fa' sensazione... Che coda dìcheno li "pretoni"? Che er peccato sta lì, tra l'orina e le feci, no? E allora, quello, alle bambine, gli infila un dito nella vagina e un dito nell'ano e poi le "sbuzza", come ai polli quando je se leva er gracile..." ) tutti erano terrorizzati dal fatto che tra la gente “per bene” potesse aggirarsi un personaggio di siffatta malvagità, che potesse agire senza movente ed in modo così abietto contro vittime indifese e contro il popolo stesso, che si sentiva in sua totale balia, inerme. Chiunque avrebbe potuto colpire all’improvviso, avrebbe potuto essere il mostro, il maniaco; un maniaco che, molto probabilmente, quando non era colpito dai raptus che lo portavano a compiere i suoi misfatti, viveva una vita perfettamente “normale”, tra gente “normale” in perfetto anonimato: e Girolimoni, pur con le sue spregiudicatezze amatorie, i suoi abiti e la sua Peugeot, tra la folla era un personaggio perfettamente “normale”. Il giorno che il mostro verrà arrestato sarà un giorno di festa, di liberazione per tutta la popolazione: il fantasma avrà un volto ed un nome e potranno essere trovate le risposte a tutte le domande. C’è la “necessità”, quindi, che Girolimoni sia colpevole! Ed infatti, subito dopo la sua cattura, vengono pubblicate, su tutte le prime pagine dei giornali, sue immagini (soprattutto quelle nelle quali indossa abiti non “ordinari”, è “camuffato”), ma anche le descrizioni più minuziose del suo aspetto fisico e psicologico, le sue abitudini, le sue “depravazioni”.



Addirittura escono allo scoperto decine di persone che affermano di conoscerlo da anni e di avere sempre sospettato della sua colpevolezza: il tenente dei Bersaglieri Cesare Tisei lo ricorda come un pessimo elemento, più volte messo in cella di rigore, durante il servizio militare in Friuli, perché trovato a commettere atti osceni su una bambina (NdA: testimonianza alquanto dubbia perché per fatti del genere sarebbe dovuto entrare in azione il Tribunale Militare, cosa che non accadde) o perché si rifiutava, anche sprezzantemente, di effettuare i propri turni di guardia, come pure Ida Sardini, una dipendente di una fabbrica d’armi, presso la quale lo stesso Girolimoni era stato impiegato come “scritturale”, che confessò di esserne stata l'amante per tre anni, avendoci anche convissuto sotto le sue continue minacce di percosse: “Io lo conobbi in un periodo di grande depressione morale e fisica. Tornava dalla guerra, era nervoso e pareva esaurito dalle fatiche che aveva sopportato. Più tardi dovetti cambiare opinione sul suo conto: era un individuo violento e manesco, che per ogni piccola cosa si agitava. Nervosissimo, aveva degli scatti che avevano manifestazioni brutali, di cui io dovevo essere la vittima… furono anni terribili, di cui conservo il peggior ricordo e che trascorsero in una incessante alternativa di liti e di rappacificazioni. Alla fine non potetti resistere alla vita spaventosa che mi faceva condurre, e lo lasciai per andare a convivere con un brav’uomo…” (Cit. dichiarazione di Ida Sardini – “L’Impero” 11 Maggio 1927). Dichiarazioni che sembrano schiacciare il Girolimoni, eppure, da tutte le deposizioni delle persone che avevano intravisto il mostro, risulterebbe che questi avesse dei biondi baffetti “girati all’insù", o “alla Guglielmina”, come si diceva una volta, proprio come il pastore anglicano di cui leggeremo; pur tuttavia Girolimoni era sempre stato perfettamente rasato, cosa che confermarono anche i lavoranti del barbiere da cui era solito recarsi, anche se i poliziotti incaricati di raccogliere le dichiarazioni dei garzoni tentarono più volte, in modo insistente, di “indirizzare” le loro testimonianze, tanto che uno di loro sembra abbia detto: “Si, una volta, a ben ricordare, mi pare di averlo visto con i baffi, ma una sola”.
A riprova di tutto questo, l’articolo apparso su “Il Tevere” il 20 Maggio 1927: “Abbiamo visto alcune fotografie del bruto arrestato ieri. Ha un aspetto tranquillo e, quasi, blando. Non si direbbe a guardarlo che in lui possa celarsi la spaventevole brutalità che gli ha fatto commettere i suoi raccapriccianti delitti. Il violento contrasto che c’è tra il suo viso, di buon giovane con qualche pretesa di eleganza, e il suo temperamento accresce ancora di più il senso di orrore e di repulsione che la sua figura ispira. Se la sua figura fosse stata più rude e grossolana il senso di raccapriccio che essa ha destato sarebbe minore. Molti immaginavano che si trattasse di un vagabondo, un malato, senza occupazione, tagliato assolutamente fuori dal mondo, che viveva una sua bestiale vita nascosta e assurda. Veniva fatto di pensare che si trattasse di una belva, una specie di uomo delle caverne, che usciva di tanto in tanto dal suo covo isolato e deserto per compiere uno di quei terribili misfatti, dopo i quali si rifugiava nuovamente nella sua tana lontana dagli uomini e dalla vita. Un essere anormale insomma che per la sua natura di belva non poteva vivere come gli altri.” Invece Girolimoni ha un lavoro, a modo suo fa del bene a molta gente facendo avere dei giusti risarcimenti da parte dei recalcitranti datori di lavoro agli operai infortunatisi nei cantieri (anche se questo gli verrà rinfacciato dai giornali e dal Fascismo, che consideravano la sua professione “...veramente strana, figlia di una novissima e non bella evoluzione professionale assunta dall’avvocatura...”), ha una vita sociale, ha successo con le donne e nel lavoro. Di pari passo sui giornali iniziano ad apparire le lodi del Duce “…la cui volontà di bene cui nulla e nessuno resiste, perché ispirata e animata da una forza superiore, che più volte ci è apparsa, qual è, addirittura sovrumana…ha trovato tenaci e fedeli esecutori…”: il mostro è stato finalmente individuato ed ora deve pagare, presumibilmente con la morte, i quattro anni di terrore che ha fatto vivere all’intera popolazione romana. Ed i giornali, in parte raccogliendo le richieste del popolo e, in ancor maggior parte, quelle del regime, si fecero promotori dell’ “…agire fascisticamente contro il feroce assassino… senza usare troppi riguardi al delinquente, sia esso comune o politico… per placare l’ondata di odio furibondo nel cuore di tutte le madri e di tutti i padri, primo fra i quali il Duce”.
In effetti la “vicenda Girolimoni” risulta di difficile lettura anche a posteriori: a parte tutte le falsità accusatorie dalle forze dell’ordine, che non sapevano dove sbattere la testa per individuare il mostro, si sarebbe potuto approfittare, l’11 Giugno del ’24, dell’autodenuncia del mitomane Imbardelli per dare in pasto alla stampa ed al popolo il Mostro, facendo passare quasi sotto silenzio il pur grave rapimento di Matteotti. Invece non si proseguì su quella strada. Ma nel 1927 la situazione politica era cambiata e, ora, si rendeva invece necessario trovare il colpevole dei misfatti a tutti i costi: così si approfittò di due strampalate denunce a suo carico per incastrare “il capro espiatorio” Girolimoni, che, tra l’altro, con il suo comportamento spregiudicato, sia con le donne che nel proprio lavoro, non doveva essere proprio simpatico al regime fascista. Purtroppo contro di lui, pur se palesemente innocente, giocarono diversi fattori: il fatto di avere un comportamento spregiudicato nel suo lavoro (procacciava clienti, in genere familiari di persone gravemente infortunate o morte nei cantieri edili e che pretendevano dai datori di lavoro un giusto risarcimento, ad avvocati spesso altrettanto spregiudicati; ed il tutto gli procurava il notevole stipendio di circa 3.ooo Lire al mese); di comportarsi in modo insolente e libertino con le donne, frequentando anche bordelli; il fatto di essere figlio di un uomo che non lo aveva riconosciuto (quindi etichettato come uno di “...quegli individui che non hanno famiglia, non hanno affetti, non hanno sentimenti figliali: sono rami malati e infetti dell’albero sociale, che bisogna recidere e gettare sul fuoco, senza indugi e senza esitazioni”...); possedere due appartamenti (uno in Via Boezio, dove viveva, ed uno, in realtà in affitto, in Via del Teatro Valle, dove aveva allestito il suo ufficio) ed una Peugeot verde (era una rarità, più che un lusso, a quei tempi, possedere un’automobile); di possedere, inoltre, ben 12 vestiti nel proprio armadio e di tenere in casa diverse foto di amanti che lui, appassionato di fotografia, aveva “artisticamente” immortalato nude, unitamente ad altre fotografie (ben 35, si disse) di se stesso variamente ritratto o “travestito” o, addirittura, di ritratti di bambine scattati in strada o in studio; il fatto di essere celibe (quindi un potenziale maniaco sessuale); il fatto di aver, secondo la teoria lombrosiana ed a detta del medico-criminologo Samuele Ottolenghi che lo visitò subito dopo l’arresto, e che così lo descrisse sommariamente: “...i tratti del perfetto degenerato, con gli occhi stranissimi, dal taglio quasi mongoloide, lo sguardo obliquo, falso, sfuggente” Ed anche i giornali: “...l’immondo essere che la Polizia ha tolto finalmente dalla circolazione è un classico tipo di degenerato. E’ esattamente alto un metro e settantatre centimetri, ha il volto sbarbato, i capelli pretenziosamente lisciati e divisi con la scriminatura ed è un po’ calvo in mezzo alla testa. I padiglioni delle orecchie distaccati e la bocca tesa in un sorriso duro, forzato, cattivo... Ha due occhi stranissimi, dal taglio quasi mongolico; lo sguardo è obliquo, falso, sfuggente. Quando parla strizza l’occhio sinistro, particolare che era già stato notato all’osteria dai quattro testimoni”. Come riporta il “Giornale d’Italia”, citando la dichiarazione del commissario: “Il suo è uno sguardo che non si dimentica. ...Ha uno sguardo strano, tra lo stupefatto ed il penetrante...” (né più né meno di come fosse lo sguardo che il Duce rivolgeva alle folle dai cartelloni e dalle fotografie che ne glorificavano le gesta!) E, così come veniva imputato al Girolimoni, anche Mussolini era un perfetto trasformista: dall’immagine di politico in marsina e cappello a cilindro dei primi anni si passa all’immagine di capopopolo in maniche di camicia, di contadino, di aviatore, di premuroso ed affettuoso “pater familias”, resistente nuotatore, provetto alpinista...
E’ da ricordare, inoltre, che il Fascismo diffidava di chiunque avesse delle menomazioni fisiche o, tantomeno, psichiche, che allontanavano il poveretto che ne fosse stato vittima dalla perfezione, tanto auspicata dal Duce perfino nell’uso della lingua italiana: si arrivò infatti, sotto il Fascismo, ad “imporre” termini come “filme” anziché “film”, “pallacorda” anziché “tennis” o, addirittura, ad italianizzare tutti i nomi dei paesi delle terre di confine: “Lasa” anziché “Laas”, “Bolzano” per “Bozen”; quindi non stupisce il fatto che i primi accertamenti delle forze dell’ordine, alla ricerca del mostro, colpirono proprio chi denotava delle menomazioni evidenti: nani, storpi, ciechi da un occhio, zoppi.... quasi che la deformità fosse indice di depravazione morale.

Fotogramma dal film "Girolimoni, il mostro di Roma", di Damiano Damiani
Per accrescere ed aggravare le accuse contro Girolimoni addirittura la polizia arrivò ad utilizzare dei bambini, le cui “suggestionate” deposizioni riconoscevano l’innocente nel mostro. In particolare si servì della testimonianza di Anna Del Signore che, scampata ad un tentativo di rapimento in Piazza Castello, disse che l’uomo che tentò di rapirla era menomato ad una mano.

Anna Del Signore
I giornali, dopo la cattura di Girolimoni, riportarono che “...ha una mano, la sinistra, che il destino, in seguito ad un infortunio, ha reso adunca, rapace, quasi l’artiglio di una belva!”. Ma anche, come riporta il commissario Dosi nel resoconto delle sue indagini, un altro sospettato, il pastore anglicano, ha la stessa caratteristica mano “ritorta”, la cui fotografia è addirittura riportata in uno dei libri di “memorie poliziesche” ("Il mostro e il detective", di Giuseppe Dosi, Edizioni Vallecchi, Firenze, 1973), che scrisse quando andò in pensione. Ma ciò non interessa le forze dell’ordine, che cercano di far confessare al Girolimoni le proprie malefatte per mezzo di estenuanti interrogatori nei quali egli dovrà ripercorrere decine di volte la propria vita, dal mancato riconoscimento da parte del padre ai primi anni passati in alcuni orfanotrofi di Milano e Como fino al lavoro di “fornaciaro” (NdA: lavorante in fornaci dove si producevano mattoni) e fino ai trascorsi militari, per arrivare alla sua carriera di procacciatore, con l’evidente scopo di farlo cadere in contraddizione e farlo finalmente “crollare”. Una parte di primo piano, nell’arresto e negli interrogatori del “sor Gino”, ebbe uno dei responsabili delle indagini: Giovanni Giampaoli.

Il brigadiere Giampaoli
Egli fu, paradossalmente, un bersagliere commilitone di Girolimoni, così come bersagliere fu Mussolini. Lo stesso Giampaoli, evidentemente mosso da rancore accumulato durante il servizio militare contro il Girolimoni, e come pretesto per estorcergli la confessione dei delitti, arrivò perfino ad accusarlo dell’omicidio di una bambina trovata morta vicino Udine, dove prestarono insieme, per un periodo, servizio militare durante la Prima Guerra Mondiale.
Alle accuse del Commissario Cesario, il Girolimoni negò, dichiarandosi innocente, dimostrando un cinismo veramente ributtante!”: non poteva non essere lui il colpevole! Ma, di fronte a tutte le, di fatto false, deposizioni contro di lui ed alle prove, anch’esse quantomeno inconsistenti, Girolimoni, durante l’ennesimo interrogatorio, riportato da “Il Giornale d’Italia” del 10 Maggio 1927, disse: “Io non risponderò più… fate di me ciò che volete; preferisco affogare in un mare grande. E scoppiò in una risata isterica e terrificante”.
Nei confronti di Girolimoni, mostro depravato, amorale e non degno di vivere in una società che si definiva civile, sotto l’ovvia dettatura della controllante dittatura fascista, che intendeva sfruttare a proprio uso politico le rivendicazioni del popolo, i giornali iniziarono a chiedere la pena di morte: non importava che il codice non la prevedesse più… per un simile bestiale omicida lo si sarebbe potuto modificare ripristinandola: “…La legge sulla pena capitale non prevede una punizione sommaria per questo genere di delitti, Ma il sentimento di tutto il popolo di Roma, anzi di tutta l’Italia, nolentemente offeso da questa contaminazione del bruto silenzioso, domanda che ne sia fatta giustizia sommaria, per lavare con la sua morte la macchia che egli ha lasciato nella onesta vita del popolo lavoratore di Roma. Si può credere che l’assassino sia un malato psichico, un irresponsabile: ma non per questo egli merita più pietà. Egli non ha soltanto stroncato barbaramente delle giovani vite pure, ma ha lordato tutta una città, seminando nelle famiglie il terrore, fra le madri una disperata ansia per il pericolo sempre presente di un suo rinnovato delitto”.
Girolimoni passa undici mesi nel carcere di Regina Coeli, tra percosse ed interrogatori continui per fargli confessare i delitti sulle bimbe, cosa che non farà mai; e questo suo atteggiamento, reticente alla confessione, verrà considerato come l’ulteriore prova della profonda depravazione dell’animo del “mostro”. Ad aggravare la sua posizione, agli occhi di tutti, fu anche il fatto che in quegli 11 mesi non vennero commessi ulteriori delitti su bambine o, quantomeno, sulla stampa controllata dal regime non se ne trovò riscontro. Ma, a poco a poco, l’innocenza di Girolimoni inizia a palesarsi: per prima cosa grazie alla deposizione di un operaio, Domenico Marinutti, che, leggendo il giornale, riconosce se stesso e la propria figlioletta Gilda nella coppia entrata nell’osteria del Massaccesi la sera del delitto della piccola Armanda. Il motivo per cui la sua dichiarazione arriva tanto tardi (NdA: il 14 Maggio 1927, per un fatto accaduto il 12 Marzo) è dovuto al fatto che, fino ad allora, i giornali avevano riportato i fatti sbagliando il nome della via in cui si trovava l’osteria in cui Marinutti, tenendo la figlia per mano, entrò per ripararsi dalla pioggia e bere qualcosa dopo aver accompagnato alla stazione Termini il proprio fratello che, militare in licenza, doveva tornare a riprendere servizio in Friuli: i primi articoli dei giornali riportarono infatti l’errato indirizzo di Via Monte Brianzo anziché quello di Via Giovanni Giraud, dove effettivamente si trovava l’osteria del Massaccesi. Il Marinutti, operaio fornaciaro è caratterizzato da due grossi baffi neri e da una camicia visibilmente lisa, ha anche un occhio leso ed un pedicello sulla guancia, che butta sangue e che gli dona un aspetto particolarmente truce e trasandato e, soprattutto, risulta essere mancino, visto che prende i soldi dalla tasca sinistra dei pantaloni (in effetti tutto l’opposto di Girolimoni, che pur aveva degli occhi dal taglio quasi a mandorla ma non aveva mai avuto i baffi né, tantomeno, era mancino e, lavorando a stretto contatto con avvocati ed operai che doveva “procacciare”, era sempre vestito con abiti di alta fattura sartoriale). L’operaio chiede una “gazzosa” per la figlia ed un caffè per se; alla risposta del Massaccesi: “Er caffè ar bàre… qui c’avèmo solo vino”, beve un bicchiere di vino, dopo aver estratto i soldi dalla tasca sinistra, come testimonieranno i quattro dell'osteria, ed esce per andare a comprare una presa di tabacco nel vicino spaccio. Secondo quanto ricostruito nel film di Damiani in base a testimonianze dell’epoca, i lavoranti dell’osteria, insospettiti dal fatto che un uomo sia potuto entrare con una bimba per mano a quell’ora insolita della sera, mandano avanti la sguattera Maria Alessio a chiedere alla bambina chi sia quell’uomo; alla risposta della bimba “E’ mi’ padre” la Alessio le domanda ancora dove abitino: “A Giordano Bruno”. Altre domande non poté fare perché il Marinutti rientrò nell’osteria con la sacchetta del tabacco in mano ed uscì poi con la figlia dal locale. Dopo la sua deposizione, nel corso della quale mostrò agli inquirenti anche la cicatrice lasciatagli dal pedicello, il Marinutti venne messo a confronto con Massaccesi e gli altri tre testimoni che, ovviamente, per la paura di perdere la taglia e di essere incriminati per la precedente falsa testimonianza, non ammisero di riconoscerlo come l’uomo entrato quella sera nell’osteria. Tra l’altro, per la sera del delitto di Armanda, Girolimoni si vide confermare poi l’alibi fornito a suo tempo alla polizia, da un amico prete che affermò di aver ricevuto la sua visita, durata un paio di giorni, in un paesino vicino Roma. Venne poco dopo alla luce anche il vero motivo per cui Girolimoni venne denunciato dall’ingegner Pacciarini: effettivamente tra “il sor Gino” e la moglie dell’ingegnere c’era un legame “di amorosi sensi” che andava avanti da diverso tempo, anche se soltanto attraverso scambi di bigliettini, e l’ingegnere l’aveva scoperto; ma Girolimoni, comportandosi in modo estremamente galante, a quei tempi usava così, pur a scapito della sua incolumità, non ammise mai di conoscere la signora, anche se questo sarebbe stato decisivo per discolparsi dalle tante accuse. Da ultima, a seguito di approfondimenti, venne la notizia che fece cadere anche l’ultima di queste accuse: all’epoca della morte della bambina di Casarsa delle Delizie, vicino Udine, Girolimoni non era assegnato a quella zona del fronte. Altre testimonianze a favore del Girolimoni vennero portate addirittura dallo stesso commissario Giuseppe Dosi, che fin da subito mostrò dubitare della colpevolezza di Girolimoni (NdA: secondo le sue supposizioni il delitto di Elsa Berni poteva essere stato commesso soltanto da un popolano che conosceva bene la vita del rione ed il Tevere) e raccolse addirittura delle prove, allargando l’area di ricerca degli indizi a luoghi dove erano stati segnalati episodi del genere, nei dintorni di Roma e, successivamente, a Capri ed al Sud Africa. I risultati di Dosi potevano portare a clamorosi sviluppi della vicenda: egli, infatti, giustamente, notò che quasi tutti i rapimenti delle bimbe erano avvenuti in una zona particolarmente ristretta del centro storico, nel raggio di circa 500 metri da Piazza San Pietro; che le poche volte che venne avvistato un possibile colpevole le persone avevano parlato concordemente di un “anziano vestito elegantemente di grigio (o di marrone) e, per di più, sembrerebbe, dall’accento straniero. Addirittura il commissario Dosi, rileggendo i rapporti redatti dopo la scoperta dei piccoli cadaveri, notò che accanto al corpo di Rosina Pelli era stato repertato un piccolo asciugamano con le cifre in carattere gotico “R. L.”; accanto al cadavere di Elsa Berni l’angolo stracciato di un foglio da lettera scritto in inglese e, nei pressi del corpo di Armanda Leonardi alcuni fogli stracciati di una pubblicazione religiosa, sempre in lingua inglese. Le sue indagini su questa pubblicazione, che a Roma soltanto tre persone ricevevano per posta in concomitanza delle festività Pasquali, lo portarono, quindi, ad individuare un pastore anglicano, tal Ralph Lyonel Brydges, che era solito frequentare la Holy Trinity Church di Via Romagna. Il pastore ha, all’epoca, sessantotto anni, ma molto ben portati: è un gran camminatore, dal fisico asciutto e giovanile, ed a vederlo camminare in modo tanto spedito e con i baffetti rossicci (chiaramente tinti) gli si potrebbero dare quasi venti anni di meno. Ad aumentare i sospetti sulla sua figura c’è anche il fatto che, durante la permanenza in prigione di Girolimoni, a Capri, dove si era recato con la moglie Florence, proprio il pastore anglicano fu fermato dalla polizia per un tentativo di adescamento ai danni di una bambina inglese di sette anni, Patricia Blackensee, alloggiata nel suo stesso albergo. Sorpreso in tale adescamento da una ragazza del luogo venne denunciato al podestà dell’isola, che dispose di pedinarlo. Qualche giorno dopo il pastore inglese venne nuovamente sorpreso dagli agenti dopo essersi appartato, sempre con la Blackensee, in un angolo poco frequentato del parco dell’albergo, venendo quindi denunciato alla Procura di Napoli per atti di libidine violenta, atti osceni in luogo pubblico e corruzione di minorenne. Rilasciato in quanto “…conosciuto favorevolmente dal console inglese a Roma…”, ed in quanto quasi settantenne, mentre le segnalazioni oculari del mostro avevano sempre parlato di un uomo dal giovane aspetto, (Giuseppe Dosi, “Il terrore di Roma pareva un pio vecchietto”, in “L’Europeo” del 19/08/1956), ma più probabilmente grazie alla buona parola messa sul suo conto da Mussolini stesso (NdA: visto che, non avendo ancora stretto l’alleanza con Hitler, l’Inghilterra non era ancora considerato un nemico bensì un paese con cui intrattenere i migliori rapporti politico-economici e, soprattutto, considerando la professione dell’inglese, un pastore anglicano con abituali frequentazioni in Vaticano, un suo arresto avrebbe inevitabilmente compromesso i rapporti tra lo Stato Italiano e la Chiesa, che, come detto, proprio in quel periodo stavano intavolando il discorso che avrebbe portato alla firma dei Patti Lateranensi). Dopo l’insabbiamento del caso (il 4 Agosto il giudice istruttore di Napoli gli confermò tutte le imputazioni ma, contestualmente, lo prosciolse dichiarandolo "...affetto da demenza senile e, quindi, non responsabile delle proprie azioni"), il pastore inglese, che comunque nell’Aprile del 1928 verrà formalmente imputato per i sequestri e gli omicidi delle bambine, ma successivamente assolto, nuovamente, per mancanza di prove, lascerà immediatamente l’Italia per il Sud Africa.
Il Dosi venne inviato a Capri dal capo della polizia Bocchini per approfondire le indagini su questo ed altri fatti accaduti sull’isola e, dopo l’esposizione delle interessantissime prove, riportate dal commissario in un resoconto inviato direttamente al Duce (NdA: raccolse, tra Capri e Roma, ben 18 prove contro il pastore anglicano, che addirittura conosceva personalmente il padre della piccola Rosina Pelli, che aveva installato l’impianto di riscaldamento nella chiesa anglicana di Via Romagna), la scarcerazione di Girolimoni, e la sua conseguente riabilitazione pubblica, sembrerebbero cosa fatta: invece ordini superiori, "Pensi alla famiglia e non si comprometta di più" ("Il mostro e il detective", di Giuseppe Dosi, Edizioni Vallecchi, Firenze, 1973), boicottano le indagini del commissario, che nel frattempo era anche riuscito ad arrestare il pastore anglicano nel porto di Genova, il 13 Aprile 1928, dove egli aveva fatto scalo con la nave che lo riportava dal Sud Africa in Inghilterra; il Dosi si vede di fatto costretto ad abbandonare il caso e viene addirittura rinchiuso in un manicomio criminale per 17 mesi con l’accusa di essere “… squilibrato e megalomane..”, perché aveva accusato una persona che non sapendo una parola di italiano non avrebbe potuto adescare tante bambine e perché, come successivamente accertato, il pastore risultò essere sessualmente impotente, quindi libero dalle accuse e di poter riprendere il suo viaggio per l’Inghilterra. Eppure il Dosi era un valente poliziotto se è vero che, dopo essere stato liberato, nel 1940 sarà reintegrato nella Polizia fino ad arrivare all’incarico di questore e poi ad essere uno dei maggiori promotori della costituzione dell’INTERPOL, la Commissione Internazionale della Polizia Criminale, di cui addirittura coniò il nome; il fatto è che “oramai” il colpevole era stato individuato in Girolimoni e fare ancora una volta “macchine indietro” avrebbe messo la polizia e, di conseguenza, il Fascismo in una pericolosissima posizione, quindi si reputò preferibile “mettere a tacere” il Dosi e continuare ad accusare Girolimoni. Dopo la cessazione dal servizio, anni dopo, Dosi scrisse, come detto, diversi libri sulle sue indagini, tra cui quello citato in nota, dedicato proprio al “caso Girolimoni”, il più importante della sua vita anche dal punto di vista personale.
Come detto, Girolimoni, con sentenza del giudice Rosario Marciano della Corte d’Appello di Roma dell’8 Marzo 1928, che lo “…assolve… per i reati a lui attribuiti per non aver commesso il fatto …”, venne si scarcerato, ma nel più totale anonimato, se si fa eccezione per un trafiletto apparso nella quinta pagina de “La Tribuna” del 10 Marzo: “E' stata depositata presso la cancelleria della Sezione d'Accusa della nostra Corte d'Appello la sentenza della Sezione di Accusa che chiude l'istruttoria a carico di Gino Girolimoni. La sentenza - dopo le richieste del P.M. comm. Mariangeli che già a suo tempo pubblicammo - assolve il Girolimoni per i reati a lui attribuiti per non aver commesso il fatto. Egli dovrà rispondere del reato di oltraggio al pudore. Il Girolimoni è stato difeso, durante tutto il periodo istruttorio, dall’Avv. Ottavio Libotte."
Ma, anche se la notizia della sua scarcerazione per la provata innocenza fosse stata pubblicata a caratteri cubitali sulle prime pagine dei giornali, oramai era condannato, agli occhi della gente, ad essere guardato con sospetto e diffidenza ed il “termine” Girolimoni era perfino diventato un neologismo della lingua italiana: un sinonimo di maniaco e, con tale epiteto (“A Girolimoniiii !”) veniva apostrofato chiunque manifestasse interesse o si accompagnasse a donne molto più giovani o bambini.
L’ennesimo smacco subito dal fascismo portò il Duce e dare l’ordine che intorno al nome di Girolimoni calasse il silenzio più assoluto (nel film Damiani fa pronunciare a Mussolini queste parole: “…Girolimoni deve cessare di esistere come “uomo notizia... Perché se è importante ciò che la stampa pubblica, è molto più importante ciò che essa tace…”, e, da parte mia, penso siano state pronunciate veramente. Girolimoni ed il mostro dovranno essere cancellati dalla memoria popolare e se qualche bambina continuerà ad essere rapita ed uccisa, in effetti non abbiamo notizie simili, per diversi anni, successivamente al 1927, basterà non parlarne. A questo punto Girolimoni si vide costretto a tentar di cambiare nome ma, malgrado insistenti richieste, a tal fine o per il rimborso per i danni subiti, anche indirizzate in via diretta al Duce, le sue domande non vennero accolte e quel cognome, pronunciato con scherno o in modo chiaramente offensivo, divenne la sua condanna a vita. Infatti non poté tornare a svolgere il precedente lavoro ma si dovette industriare trovandosi una nuova attività che gli potesse permettere quantomeno di sopravvivere in quelli che già furono, per l’Italia intera, anni estremamente difficili. E pensare che prima dell’arresto era proprietario di appartamenti, di una splendida Peugeot verde, addirittura di 12 vestiti….. Tentò anche di impietosire i cronisti dei vari giornali romani, girando per le redazioni, affinché qualcuno scrivesse su di lui un articolo che lo potesse riabilitare moralmente agli occhi del popolo, ma nessuno di questi accettò.
Così si trasferì nel popolare quartiere di San Lorenzo, e poi nell’altrettanto popolare Testaccio, dove svolse diversi lavori: assicuratore, riparatore di biciclette, ombrellaio, calzolaio… fino al 1961 quando morì, in un appartamento in subaffitto a Lungotevere degli Artigiani, indigente e solo, tanto che al suo funerale, di cui il Comune di Roma si fece carico, parteciparono soltanto pochissime persone, tra le quali il commissario Dosi, forse l’unico suo vero “amico”. Da “Paese Sera” de 27 Novembre 1961: “Nella basilica di San Lorenzo fuori le Mura si sono svolti ieri mattina i funerali di Gino Girolimoni, deceduto domenica scorsa all'età di 72 anni. Il Girolimoni fu accusato nel 1927 di aver seviziato sette bambine, ma alla fine venne riconosciuto innocente. Al termine delle esequie, la sua salma è stata trasportata al deposito del cimitero del Verano, in attesa che il comune provveda alla sua sistemazione."
Alla figura di Gino Girolimoni, allo “sfruttamento” del suo caso, ad opera del Fascismo, per far passare sotto silenzio l’assassinio di Matteotti ed il ripristino della pena di morte da utilizzare poi per “fini politici”, sono stati dedicati molti libri, incontri e, addirittura, film. In particolare quello di Damiano Damiani, magistralmente interpretato da Nino Manfredi, da una lettura, forse addirittura la più corretta, della vicenda e della figura del vero assassino: se proprio vogliamo escludere anche l’ipotesi del pastore anglicano (risulta difficile pensare che anche lui potesse essere il colpevole, non parlando una parola di italiano), il mostro non poteva che essere un popolano abitante negli immediati pressi della basilica vaticana, visto che almeno sei aggressioni alle bambine sono avvenute nel raggio di meno di 500 metri dal colonnato di San Pietro e che addirittura tre di loro erano legate da vincoli seppur indiretti di parentela, cosa che non venne mai rilevata dagli inquirenti del tempo.
La piantina con i luoghi dei rapimenti delle bimbe uccise
Ed in effetti, al tempo, fu sospettato dei delitti, dagli stessi popolani del Rione Borgo, un ortolano ambulante (NdA: come riportato nel film di Damiani), che morì poi in manicomio pochi anni dopo la fine della guerra. Chi meglio di lui, che tra l’altro era lo zio della piccola Celeste Tagliaferri, rapita addirittura nella propria culla, poteva conoscere i tempi e le abitudini delle famiglie di Borgo? Tra l’altro la cessazione improvvisa dei delitti del mostro, seppur in concomitanza con l’arresto di Girolimoni in seguito pur posto in libertà, si può spiegare facilmente, oltre che con il silenzio imposto alla stampa, con una stretta, “familiare” e seppur rischiosa sorveglianza dell’individuo da parte dei propri parenti, che ipoteticamente lo mise nell’impossibilità di commettere ulteriori delitti, oppure con il più probabile fatto che il vero assassino sia stato successivamente individuato e “reso innocuo” dalla polizia del Duce, visto che gran parte dei protagonisti della vicenda vennero in seguito illogicamente promossi malgrado la figuraccia fatta con Girolimoni, che pagò per tutti.

Aggiornamento del 06/01/2012: negli ultimi due anni ho scambiato opinioni e supposizioni con il giornalista Fabio Sanvitale, che da tempo si occupa di reperire notizie sul caso, e proprio in questi giorni (con la collaborazione di Armando Palmegiani) è uscito il suo libro dal titolo "Un mostro chiamato Girolimoni", per le rotative della Sovera Edizioni.
Per scoprirne alcune pagine potete visitare la pagina Facebook del libro.




FONTI
Un delitto al giorno”, Riva & Viganò, Baldini & Castoldi Editore, pag.590-593

Roma criminale”, Armati & Selvetella, Newton & Compton Editori, 2006, Capitoli III e IV

Girolimoni, il “Mostro” e il Fascismo”, Damiani & Strazzulla, Cappelli Editore, 1972, Collana Inchieste e Documenti

Girolimoni, il mostro di Roma”, film di Damiano Damiani, Fulvio Gicca Palli, Enrico Ribulsi, 1972

Storia della Polizia”, Annibale Paloscia, Newton & Compton Editori, 1989

Citazioni da “Il mostro e il detective”, Giuseppe Dosi, Vallecchi Editore 1973

La doppia emme di Girolimoni”, F. Cimagalli – fonte su Internet

Intervista di Renzo Trionfera a Giuseppe Dosi, “Il terrore di Roma pareva un pio vecchietto”, in “L’Europeo” del 19/08/1956

Sito Internet del Dipartimento Informatica ed Applicazioni "Renato M. Capocelli", Fisciano (SA)

Il Mostro”, romanzo (quasi interamente sunto del libro di Damiani) di Antonello Anappo, fonte su Internet
Wikipedia
Fotografie tratte da Internet o dal Libro "Girolimoni, il “Mostro” e il Fascismo”, Damiani & Strazzulla, Cappelli Editore, 1972, Collana Inchieste e Documenti