19 novembre 2009

IL BORGHETTO DI GREGORIOPOLI E IL CASTELLO DI GIULIO II° A OSTIA ANTICA

Il borghetto fortificato di Gregoriopoli, delimitato dalla cinta muraria del castello di Giulio II°, fu molto legato alle sorti di Ostia Antica, città divenuta, nel corso dei secoli, un importante punto di riferimento per i Romani che la fondarono avendo la necessità di uno sbocco sul mare per l’attracco delle navi e per lo scarico delle merci destinate alla capitale dell’impero.
Ostia Antica, oltre che dal punto di vista geografico e strategico, ebbe grande importanza economica per la ricchezza delle saline che erano nelle immediate vicinanze. Il sale, infatti, fin dall’antichità, è stato utilizzato per conservare i cibi, per insaporirli e, nella Roma imperiale, era addirittura utilizzato come “paga” per le truppe (da cui il termine ancora oggi utilizzato di “salario”). L’attuale città di Ostia deve il suo nome al termine “ostium” (“ingresso” ma anche “sbocco”, sottinteso “del fiume”) e la sua fondazione, prima colonia dei romani e primo porto fluviale in Italia, si fa risalire al quarto re di Roma, Anco Marzio. I continui scavi archeologici hanno permesso il ritrovamento di una cittadella fortificata, il tipico “castrum” romano, risalente al IV° secolo a.C.. In ogni caso ritrovamenti di materiali databili all'età del bronzo (XIII°/X° secolo a.C.) nel territorio di Ostia e dell'attuale Acilia (l’antica “Ficana”), testimoniano come la zona della foce del Tevere fosse abitata già in tempi precedenti.
Le origini di Ostia, come detto, si fanno risalire addirittura al 396 a.C., quando i Romani, dopo la conquista di Veio, allestirono un castrum, alla foce del Tevere, atto a presidiare il litorale dagli assalti dei Greci e dei Siracusani, allora in lotta con i Romani per il dominio del Mediterraneo Occidentale. A partire dal II° secolo a.C. l'importanza commerciale del villaggio aumentò, tanto che vi sorsero le prime botteghe ed i primi grandi magazzini di stoccaggio per le merci. Due erano le strade principali del vecchio castrum: il “cardo massimo” ed il “decumano massimo”, prosecuzione cittadina della “Via Ostiensis”, che partiva dalla zona del Circo Massimo, a Roma, fino a raggiungere la foce del Tevere.
Dopo che Mario lo saccheggiò durante la guerra civile, il castrum di Ostia fu dotato, da Silla, di ampie mura in tufo, con quattro porte in corrispondenza dei vertici formati dall'incrocio del cardo e del decumano. Come detto, con l'aumento del volume d'affari e dei traffici, i Romani avvertirono la necessità di creare una zona portuale per agevolare le manovre d’attracco e di carico delle imbarcazioni. Sia Cesare che Augusto progettarono di realizzare questo bacino portuale ma solo Claudio, nel 42 d.C., riuscì ad attuarlo, in corrispondenza dell'odierno aeroporto Leonardo da Vinci. Successivamente Traiano (106-113 d.C.), fece costruire un secondo bacino, più riparato, collegato al primo tramite l'attuale canale artificiale di Fiumicino. Ostia fu quindi un importantissimo centro di smistamento e crebbe in ricchezza e prestigio fino a toccare il culmine con la ristrutturazione urbanistica di Adriano, quando arrivò a contare oltre 100.000 abitanti. Il vecchio accampamento andò quindi trasformandosi in una vera e propria città, principale punto di smistamento per le merci dirette a Roma, tanto che Ostia divenne un centro attivo e popoloso. Dall'intensificarsi della vita sociale derivò la necessità di costruire il foro, in cui venne edificato ex novo il “Capitolium”, un grandioso tempio dedicato a Giove, Giunone e Minerva (la famosa “Triade Capitolina”); si moltiplicarono gli “horrea”, imponenti magazzini di stoccaggio, e vennero edificati, sempre nel foro principale, la basilica, la curia, la Caserma dei Vigili, le terme ed il Piazzale delle Corporazioni, su cui si aprivano gli uffici e le attività dei commercianti, degli spedizionieri, dei barcaioli, dei facchini e dove avvenivano le contrattazioni per lo scambio delle merci. Un secondo Capitolium, eretto successivamente in sostituzione del primo, si nota leggermente più arretrato e posto su un basamento alto 17 metri, con un’alta scala d’accesso all’ara. Di fronte sono le fondamenta del Tempio di Augusto e Roma, mentre sul lato orientale si trovano i ruderi dell’imponente “frigidarium”. Sul lato occidentale è invece la basilica, di età Antoniana, cinta da un portico a colonne. Di età Augustea è invece il teatro, costruito agli inizi del I° secolo ed ampliato, in seguito, da Settimio Severo e Caracalla: tutt’ora, avendo una capienza di poco meno di 3.000 persone, vi si tengono rappresentazioni teatrali e concerti.
Alle oramai vecchie “domus” repubblicane si sostituirono, a partire dal I° secolo d.C., ricche case con cortili, porticati, giardini pensili e terme private, tutte peraltro finemente affrescate: Ostia divenne quindi un vero e proprio centro residenziale. Per le manovalanze, invece, vennero edificate delle “insulae”, dei veri e propri palazzi a più piani, concepiti per contenere il maggior numero di persone nel minor spazio possibile, e costruiti interi nuovi quartieri. Vennero migliorate o costruite ex novo vie di comunicazione come la “Via Severiana”, che collegava Ostia con il porto di Terracina.
La decadenza di Ostia Antica, parallela a quella di Roma, ebbe inizio nel corso del II° secolo d.C., accelerata dal provvedimento di Costantino che intese separare la zona portuale, ben protetta militarmente, dalla zona residenziale, che restò così esposta alle scorrerie dei saraceni e dei barbari.
Infatti, più volte devastata da Alarico nel V° secolo e da Vitige nel VI°, Ostia si spopolò progressivamente, tanto che l'attuale zona archeologica diventò praticamente una cava di materiali da costruzione. Gran parte dei vecchi magazzini vennero abbandonati e le attività trasferite sul litorale, presso la nuova area portuale. Venne smantellato perfino il Piazzale delle Corporazioni ed i materiali dei monumenti, delle statue e dei basolati vennero utilizzati per completare ed ornare nuovi monumenti. Dell’antico fiorente borgo rimasero soltanto le imponenti rovine. L'unica costruzione che rimase sempre visibile fu il Capitolium, trasformato nei secoli addirittura in ovile e chiamato "la casa rossa", in virtù del colore dei suoi laterizi.
Perfino il vescovo della diocesi ostiense, esistente fin dal 313 d.C., cui era demandato già a quei tempi il privilegio di consacrare il vescovo di Roma, perse potere e la diocesi diventò sede suburbicaria, per finire, nei secoli, inglobata nella sede vescovile di Velletri.
Ostia, proprio per la sua caratteristica di città commerciale, è sempre stata una città cosmopolita, dove hanno convissuto e convivono razze e culture anche profondamente differenti. Anticamente i suoi abitanti, anche con lingue e religioni differenti, erano, a seconda della professione, raggruppati in sodalizi; ne sono testimonianza i templi dedicati oltre che alle divinità locali, a Mitra, Cibele ed Iside. Recente è anche la scoperta di una sinagoga.
Gli scavi archeologici di Ostia Antica iniziarono nei primi anni dell’800, sotto Pio VII°, e proseguirono con Pio IX°; nel 1909 iniziarono in maniera continuativa e con metodo scientifico ed hanno portato, fino ad oggi, alla luce circa i tre quarti dell’antico centro, per un’estensione di circa 70 ettari, probabilmente dopo Pompei il miglior esempio di città di epoca romana giunto fino a noi.
Dopo la caduta dell’Impero il borgo di Ostia fu quasi completamente abbandonato dalla popolazione che, per sfuggire alle successive incursioni, si trasferì nell’entroterra del vecchio abitato. Questa tendenza allo spopolamento si invertì quando Gregorio IV° (827-844) decise di costruire, a controllo della zona strategica tra lo sbocco al mare del Tevere, le saline ed appunto il litorale, un piccolo borgo fortificato, denominato “Gregoriopoli” dal nome di papa Gregorio IV° che ne ordinò la fortificazione.
In particolare la chiesa del borgo, poi assurta a cattedrale, divenne, nel IX° secolo, il nucleo intorno a cui Gregorio IV° raccolse la popolazione ostiense. Il nuovo centro fu munito di una cinta muraria e di un fossato.
Agli inizi del XIII° secolo il vescovo Ugolino dei Conti di Segni, diventato poi Gregorio IX°, decise di edificare una nuova cinta fortificata che, malgrado il periodo turbolento, era ancora in buone condizioni quando Gregorio XI° sbarcò sul litorale ostiense di ritorno dalla cattività avignonese.
Agli inizi del 1400 papa Martino V° (1417-1431) fece costruire, a guardia del Tevere, una torre rotonda, nei pressi del fossato, successivamente inglobata nelle mura del castello da Giulio II°. Il percorso delle mura, di forma quadrangolare, con due torri rotonde sul lato est ed una rettangolare sul lato ovest, è interrotto presso l'angolo sud dal complesso costituito dal fossato e dal castello, la cui costruzione, voluta dal cardinale Giuliano della Rovere (futuro papa Giulio II°), comportò l'abbattimento del tratto delle fortificazioni prospicienti il corso del Tevere. Sul lato nord delle mura si aprono attualmente due porte: la principale, su Via dei Romagnoli, è protetta dalla torre rettangolare, probabilmente sorta su una fortificazione precedente. Su di essa è murata una maschera tragica marmorea (foto in alto a sinistra) proveniente dal teatro romano di Ostia Antica, mentre altri resti di monumenti romani sono inglobati nelle mura di cinta ed in quelle delle casette del borgo.
In piazza Umberto I° si apre la porta minore, protetta da un torrione circolare integrato nella cinta muraria.
Come accennato Gregoriopoli rivestì un ruolo di primaria importanza per il controllo dei traffici doganali e per le saline, il cui monopolio spettava alla Curia. Nei pressi del borgo era infatti una dogana dove tutte le navi, all’atto del transito, dovevano versare una tassa sulle merci trasportate. Martino V° continuò i lavori di rinforzamento del castello mentre il cardinale Guglielmo d'Estouteville, Vescovo di Ostia dal 1461 al 1483, promosse il ripristino dell'intera cinta muraria, come dimostrano gli stemmi marmorei, ancora oggi affissi alle mura esterne e raffiguranti il leone rampante con gigli, simbolo della sua casata. La Curia romana mirò quindi, nei secoli, a conservare un abitato intorno al presidio doganale, continuamente decimato a causa del clima malarico della zona: vennero quindi migliorate, nel borgo, le condizioni residenziali, grazie alla costruzione di tre file di case a schiera poste tra il castello e la Chiesa intitolata a Sant’Aurea.
Tra il 1483 e il 1487, durante il pontificato di Sisto IV°, il cardinale Giuliano della Rovere (futuro papa Giulio II°) fece costruire il castello, dall'architetto fiorentino Baccio Pontelli, poiché voleva che il borgo fosse fortificato ed abitato regolarmente. Nel piccolo giardino interno triangolare era una cisterna per la raccolta dell’acqua piovana e fu creata una porta per l’accesso interno, che, sulla falsariga delle rampe di Castel Sant’Angelo, poteva permettere l’accesso anche a carri trainati da cavalli. Sopra la porta possiamo trovare la scritta “Giulio II° pontefice massimo”, seguita da uno stemma che raffigura le chiavi e la tiara papali. Lungo tutto il perimetro delle mura troviamo le casematte, che avevano delle feritoie per permettere ai soldati di sparare con gli archibugi durante gli attacchi nemici.
Inoltre le mura di cinta del castello sono leggermente inclinate per meglio poter respingere gli assalti e per poter meglio sopportare gli impatti dei proiettili delle artiglierie avverse.
La valenza strategico-militare del castello, è parzialmente attenuata dalla costruzione di ambienti residenziali sul lato occidentale del cortile e dallo scalone, attribuibile anch’esso, come indica l'iscrizione sul portale, a Giulio II°. Il nuovo scalone monumentale, articolato in tre rampe, presenta volte e pareti decorate con affreschi policromi eseguiti da artisti della scuola di Baldassarre Peruzzi. Come detto Giulio II° volle rendere abitabile il castello, oltre che per il soggiorno delle truppe, anche per eventuali suoi periodi di vacanza. I soffitti e le porte degli alloggi dei soldati erano molto bassi mentre, nei saloni, soprattutto del secondo piano, la particolare cura degli arredi e degli affreschi rimasti attestano il carattere lussuoso del castello; purtroppo l’umidità ha corroso i muri e soltanto sui soffitti sono rimasti affreschi di forme geometriche con raffigurate delle scene belliche. In un’area quadrata era raffigurata una delle imprese di Ercole ma vi sono anche delle pitture simili a quelle ritrovate nella Domus Aurea di Nerone e denominate "grottesche". Wikipedia così descrive questo genere pittorico: “Le grottesche sono un soggetto pittorico molto popolare a partire dal ‘500. Il nome, come spiega Benvenuto Cellini nella sua autobiografia, deriva dalle grotte del colle Esquilino, che altro non erano che i resti sotterranei della Domus Aurea di Nerone, scoperti nel 1480 e divenuti immediatamente popolari tra i pittori dell'epoca, che spesso vi si fecero calare per studiare le fantasiose pitture rinvenute. Tra questi vi furono il Pinturicchio e Raffaello ed altri che in seguito diffusero questo stile. Durante il Cinquecento, l'utilizzo di questo tipo di decorazione fu motivo di irritazione e disprezzo per molti teorici dell'arte, tra i quali il Vasari, che le definì "pitture licenziose e ridicole molto". Difatti non è difficile credere come le grottesche, caratterizzate dalla totale negazione dello spazio, dalla presenza di esseri ibridi e mostruosi e senza alcun riferimento intellettuale, siano state considerate opere di puro libertinaggio. Sono figurine esili ed estrose, che si fondono in decorazioni geometriche e naturalistiche, su uno sfondo in genere bianco o comunque monocromo. Le figure sono molto colorate e danno origine a cornici, effetti geometrici, intrecci e quant'altro, ma sempre mantenendo una certa levità e ariosità, per via del fatto che in genere i soggetti sono lasciati minuti, quasi calligrafici, sullo sfondo. Vitruvio stesso, nell'antichità, condannò la moda di questi ornamenti ma allora, come nel Cinquecento, la loro diffusione fu inarrestabile”. E’ curioso notare, quindi, come le pitture del castello, ordinate nientemeno che da un Papa, non avessero carattere religioso ma, in fin dei conti, Giulio II° tanto religioso non fu, visto che venne denominato "il Papa guerriero"…
Nato ad Albisola, nei pressi di Savona nel 1443, ed eletto cardinale nel 1471, divenne pontefice nel 1503. La sua fama è soprattutto legata alle sue iniziative politiche volte alla riconquista dei territori dello Stato Pontificio perduti dai suoi predecessori. Per riconquistare alla Repubblica di Venezia i territori persi in Romagna promosse un’alleanza con Luigi XII° di Francia, Ferdinando II° d'Aragona e l'Imperatore Massimiliano I°, la ”Lega di Cambrai”, con la quale sconfisse i veneziani nella battaglia di Agnadello (1509). L'anno seguente ruppe la coalizione per allearsi poi con la stessa Venezia, la Spagna e l’Inghilterra nella "Lega Santa" (1511) contro la Francia, costringendo i francesi ad abbandonare l’Italia ed a restituire il Ducato di Milano alla famiglia Sforza. Ma io preferisco ricordare Giulio II° per la sua attività di mecenate delle arti in quanto commissionò ai più grandi artisti del tempo, quali Michelangelo, Raffaello, Bramante, opere quali l'affresco della volta della Cappella Sistina, la statua del Mosè, il suo monumento funebre in San Pietro in Vincoli, le Stanze Vaticane e, non certo da ultima, la posa della prima pietra della nuova Basilica di San Pietro in Vaticano.
Il salone all’interno dell’Episcopio, che fu residenza del vescovo di Ostia, è chiamato “Riario”, dal nome del cardinale che lo realizzò e sui suoi muri si possono ancora oggi ammirare affreschi ispirati dalle immagini scolpite sulla Colonna di Traiano e riferentesi alle "guerre daciche" (101-102 e 105-107), leggibili in sequenza oraria da sinistra verso destra. La scena finale raffigura i funerali dell'imperatore Traiano e l’intero ciclo pittorico è attribuito al senese Baldassarre Peruzzi ed ai suoi aiutianti Cesare da Sesto e Domenico Beccafumi. Nella seconda metà del ‘500 questa sala, situata vicino alla chiesa, era stata nominata "lazzaretto", in quanto fu infatti utilizzata come ricovero per i malati di malaria, al tempo malattia ricorrente in quelle zone vista la vicinanza del fiume. Visto che in queste sale era richiesta igiene e pulizia si pensò di ricoprire le pareti con intonaci. Nel 1967 un padre agostiniano scoprì casualmente, sotto l’intonaco in parte sgretolato, gli affreschi nascosti, alcuni ancora in buono stato di conservazione.
Il complesso architettonico è costituito quindi da un sistema perimetrale di casematte (camere da sparo con vista sull’esterno delle mura attraverso feritoie), che raccordano i tre torrioni (il principale dei quali ingloba la precedente torre cilindrica voluta da papa Martino V°) e da un ampio fossato circostante. Il mastio è la torre più grande del castello ed era possibile isolarlo dal resto delle mura per mezzo di un ponte levatoio. Attorno alla metà del XVI° secolo due eventi segnarono il declino del castello: l'assedio del duca d'Alba (1556) e l'esondazione del Tevere (1557), conseguenza della quale fu il cambio del corso del fiume verso settentrione. Nel 1737 la rocca subì un saccheggio ad opera delle truppe spagnole ed, anche a causa della formazione di paludi intorno al borghetto, tutto cadde nel più completo abbandono. Successivamente la rocca fu concessa in affitto a famiglie del luogo come fienile e, in una delle stanze che si affacciano sul cortile interno, si conservava, e forse anche produceva, il formaggio. Le mutate condizioni territoriali, unitamente ai gravi danni subiti dal sistema difensivo, determinarono la decadenza del castello, che fu sostituito nelle sue funzioni doganali dapprima da Tor Boacciana (secolo XII°) ed in seguito da Tor San Michele. Quest'ultima, terminata nel 1568 da Giovanni Lippi, subentrato nella direzione dei lavori a Michelangelo Buonarroti, sostituì il castello di Giulio II° quale presidio fortificato del Tevere. Nei secoli successivi l'autorità pontificia intervenne con opere di ordinaria manutenzione fino al 1736 quando Pio VI°, nell'ambito di un vasto piano di bonifica, finalizzato allo sfruttamento delle saline, restaurò i danni che la rocca aveva subito nel corso dell'occupazione spagnola.
La sistematica attività di scavo nella città romana determinò, prima sotto Pio VII° (1800-1823) e poi sotto Pio IX° (1846-1878), lavori di adeguamento all'edificio che, nel 1804, fu utilizzato per dare “asilo ai condannati addetti allo scavo e ai soldati che loro facevano la guardia”, poiché iniziò in quel periodo lo sfruttamento dei galeotti per l’effettuazione dei lavori inerenti gli scavi archeologici. Se la cosa poteva essere vantaggiosa economicamente, vista la gratuità della mano d’opera, non lo era ai fini della conservazione del bene stesso, poiché l’alloggiare guardie e forzati stravolse la funzione originaria dei locali interni del monumento. Nella seconda metà dell’Ottocento ebbero inizio alcuni lavori di restauro e Francesco De Sanctis approvò la destinazione del castello a nuovo "Museo Ostiense", che doveva raccogliere i reperti degli scavi di Ostia Antica. In seguito il materiale fu trasferito nel Museo Nazionale Romano. Nel 1908 fu realizzato all’interno della rocca un "Antiquarium" di sei sale. Tra gli anni 1938 e 1940 i materiali furono trasportati nel "Museo del Casone del Sale" e per la rocca iniziarono veri e propri lavori di restauro guidati da Italo Gismondi, con l’abbattimento di tutto ciò che era “moderno”, per riportare il monumento alle strutture originali. Nel 1964 la Soprintendente Squarciapino volle che al primo piano degli appartamenti papali fosse allestito un museo per illustrare la storia del monumento. Per ulteriori restauri e studi, negli anni ’80 il monumento fu chiuso per riaprire negli anni ’90. Ora è aperto al pubblico e in parte visitabile, inoltre ospita il "Museo delle Ceramiche", rinvenute all’interno del borgo e nell’area circostante.
Foto da Virgilio Mappe

Come detto il borghetto di Gregoriopoli è attualmente racchiuso nella cinta muraria del castello di Giulio II° ed è inoltre formato dal suo fossato, dalla Chiesa di Santa Aurea, dall’Episcopio, la sede che fu del Vescovo di Ostia, e dalle tre brevi serie di casette a schiera. La Diocesi di Ostia fu, nei secoli passati, importantissima perché fu la prima fra le “suburbicarie”, e seconda per importanza solo a quella di Roma, tanto che ben dodici Vescovi di Ostia sono stati eletti al soglio papale. Al vescovo di Ostia spettava la prerogativa di consacrare il vescovo di Roma. Perciò gli spettava il diritto del Pallio, una striscia di stoffa di lana bianca atta ad avvolgere le spalle e che rappresenta "la pecora che il pastore porta sulle sue spalle come il Cristo", quindi simbolo del compito pastorale di chi la indossa. Il pallio divenne infatti il segno distintivo nei paramenti degli arcivescovi, che lo ottenevano per concessione del Papa, e fino al IX° secolo era esclusivamente indossato dal Pontefice come simbolo del "Buon Pastore" (le due strisce terminali di seta nera che lo caratterizzano simboleggiano gli zoccoli della pecora) e insieme l'agnello crocifisso per la salvezza dell’umanità perduta; questo spiegherebbe il perché sia intessuto in lana.
La Chiesa di Sant’Aurea, sorta nel IV° secolo come basilica cimiteriale (recenti scavi hanno riportato alla luce strutture di un edificio funerario del I°-II° secolo, riutilizzato poi, tra il IV° ed il V° secolo con sepolture in terra coperte da tegole), è intitolata a Sant’Aurea, figlia di un nobile romano che in questa zona possedeva dei terreni.
Aurea era di fede cristiana e continuò a seguire la parola di Gesù nonostante le persecuzioni che in quei tempi i cristiani dovettero subire dai Romani. Oltre ad aver subito le fustigazioni cui i cristiani vennero crudelmente sottoposti, a lei venne addirittura amputato un seno, ma ciò non le impedì di continuare a professare la sua fede in Dio. A questo punto venne uccisa, affogata in mare. La tradizione la vuole martirizzata sotto Claudio il Gotico attorno al 270-280. Aurea, vista la sua morte, è considerata la protettrice dei naviganti, assieme a Santa Lucia, che “indica la strada attraverso la luce”.
La chiesa è stata probabilmente costruita, nella stessa epoca del castello, sui resti di una precedente costruzione sacra ed ha successivamente assunto il ruolo di cattedrale, cosa confermata dalla presenza, nella navata sinistra, di un repositorio per la custodia degli “olea sacra”, distintivi le cattedrali, attribuibile a scuola cosmatesca del XII°-XV° secolo.
Al di sotto dell'ambiente centrale un ossario costituisce il primo cimitero della comunità romagnola che dal 1884 intraprese i lavori di bonifica degli stagni di Ostia, Fiumicino e Maccarese.
A questo periodo risale il toponimo, dato alla chiesetta, di Sant'Ercolano, presumibilmente martirizzato insieme a Sant’Aurea nel 283 e sepolto nelle vicinanze, nella zona considerata la più grande necropoli di età imperiale. Accanto all'altare della chiesa c'è una targa riportante il nome "Aurea", in memoria dell’incrollabilità della fede della martire.
La chiesa, di architettura paleocristiana, a navata centrale e con due navate minori laterali, precedentemente dedicata a Santa Monica, la madre di Sant’Agostino, aveva orientamento opposto a quello attuale e sorgeva lungo su una strada basolata, ancora visibile nell’adiacente "Parco dei Ravennati" (così denominato perché intitolato alle centinaia di braccianti provenienti in gran parte da Ravenna e dall’intera Romagna per bonificare la zona paludosa che circondava Ostia), e fu “ruotata” nella posizione attuale dal cardinale Giuliano Della Rovere.
Ripetutamente restaurata nel corso dei secoli, è caratterizzata da un interno semplice in cui sono conservate alcune iscrizioni relative al culto di Sant’Aurea ed a quello di Santa Monica.


06 ottobre 2009

TRIPPA ALLA ROMANA

Finalmente torno su questi schermi con una classicissima ricetta romana: la trippa al sugo.
La trippa è una "frattaglia" bovina costituita da diverse parti dello stomaco (rumine, foiolo, reticolo). Generalmente si trova in vendita, in barattolo, già precotta ma è sempre stato un alimento "povero", di quei tagli di carne destinati al consumo da parte del popolino romano: i ricchi, infatti, potevano permettersi o propendevano per ben altri tagli, magari, in fin dei conti, anche meno gustosi e saporiti della trippa, della pajata o della coratella (per non parlare della coda).
Nelle trattorie romane, e più generalmente laziali, il giorno deputato al consumo della trippa era istituzionalmente il sabato. Anzi, tradizione vuole che, eccetto in periodo di Quaresima, il menu della settimana romana fosse così "stabilito":

lunedì brodo e bollito;
martedì polpette alla romana (che un tempo si facevano utilizzando la carne del bollito);
mercoledì frattaglie e coda (in quanto il mercoledì, con il sabato, era il giorno del macello dei bovini);
giovedì gnocchi (generalmente di semolino, in previsione del venerdì di magro);
venerdì (giorno dedicato alla penitenza, anche in cucina) baccalà (spesso con i ceci, tanto che ancora oggi le salsamenterie ed i banchi dei mercati sono soliti, il venerdì, esporre un cartello con su scritto "oggi baccalà e ceci ammollati") oppure, in inverno, minestra di arzilla (un tipo di razza) con broccoli;
sabato trippa (le carni di maggior pregio, macellate il sabato, erano destinate alle famiglie nobili e benestanti; quindi il popolo si accontentava degli scarti, il cosidetto "quinto-quarto": animelle, rognoni, pajata, trippa, coda, corate... alla fine dei conti praticamente il meglio...);
Mentre la domenica ci si poteva concedere un po' di carne o della pasta.

Per lessare la trippa:
1 cipolla
3 o 4 chiodi di garofano
un paio di foglie di lauro
una costa di sedano
una carota
due rametti di menta romana.

Per 4 persone:
600 gr di trippa già cotta
mezza cipolla
600 grammi di pomodori pelati
olio extravergine di oliva
foglie fresche di menta romana
pecorino grattugiato
peperoncino
1/2 bicchiere di vino bianco
sale
(opzionali: una carota ed una costa di sedano)

Se non si ha già la trippa precotta lessarla insieme alla cipolla, i chiodi di garofano, le foglie di lauro, il sedano, la carota e due rametti di menta romana.
Una volta lessata farla a striscioline larghe circa 2 centimetri.
Il soffritto, preferibilmente in un tegame di coccio, va fatto con un paio di giri d'olio extravergine di oliva, mezza cipolla tagliata finemente (volendo, la carota, il peperoncino ed il sedano), facendo rosolare il tutto per un paio di minuti.
Quando la cipolla inizia ad imbiondire aggiungere il mezzo bicchiere di vino bianco e la trippa. Dopo un paio di minuti aggiungere i pomodori pelati, schiacciati con una forchetta, ed il loro sugo; regolare di sale e far cuocere a fiamma bassa per una quarantina di minuti, mescolando ogni tanto, a pentola coperta. Quasi a fine cottura io aggiungo alcune foglie di menta romana.
La trippa va servita calda con qualche fogliolina di menta ed una abbondante grattugiata di pecorino romano.
Inutile dire che ci si deve munire anche di una notevole quantità di pane perchè la cosa più gustosa è la "scarpetta" nel sugo.


Scusate per la qualità della foto: il vapore della trippa bollente ha appannato un po' l'obiettivo ed ho dovuto contrastare i colori.

03 febbraio 2009

SINGING IN THE RAIN IN ROME

Passeggiando per Roma sotto la pioggia di gennaio....

....meritava un paio di foto.
Piazza della Bocca della Verità

Saliamo sul Campidoglio (dopo aver ammirato questa "porta sul nulla") Da qui possiamo godere di un panorama mozzafiato, con i colori che la pioggia rende ancora più indimenticabiliScendiamo a Piazza Venezia, dove ci sorprende un temporale allucinante, ma che ha il pregio di farci assistere ad uno spettacolo mozzafiato: due splendidi arcobaleni paralleli......

Il colore del cielo cambia in continuazione ed in pochissimi secondi: perfettamente sgombro di nubi e celeste.... cipria.... grigio scuro......
Da Piazza Venezia andiamo all'Argentina ed al Pantheon
Per arrivare poi in Piazza Navona, oramai dopo il tramonto
Allunghiamo il giro fino al Ghetto
E questo è il presepio di Santa Barbara dei Librari (che riproduce la chiesetta stessa e la piazzetta in cui sorge)