31 marzo 2011

ROMA CURIOSA: LA SIRENA E IL CANNONE DI MEZZOGIORNO

Ricordo che, da bambino, nei cieli, tra le vie ed i palazzi di Roma risuonava, a Mezzogiorno, “la sirena”.
Questa usanza di far suonare, quasi all’ora di pranzo, le sirene che, nella prima metà del secolo scorso erano servite per annunciare l’avvicinamento degli aerei che puntavano Roma per effettuare dei bombardamenti durante la Seconda Guerra Mondiale, è stata in vigore fino al 1975 ed è per questo che io, del 1968, l’ho ancora chiara nella memoria.
In effetti, nei secoli precedenti, il suono dei campanacci e delle campane scandiva i ritmi di vita dei contadini: queste suonavano, nei paesi e nei campi, così come nelle vie dei rioni di Roma, allo scoccare delle 8 e soprattutto delle 12, ad indicare l’ora di inizio e di fine della mattinata lavorativa, spesso da aprire e chiudere rigorosamente con una preghiera.
Nella città eterna l’uso di segnare l'ora con lo sparo di un colpo di cannone fu introdotto da Papa Pio IX il 1° dicembre 1847, affinché Roma potesse avere un’indicazione univoca e non centinaia di scampanii operati dai campanili di ogni parrocchia, che ovviamente non potevano essere sincronizzati tra di loro e, quindi, il suono delle loro campane poteva protrarsi anche per diversi minuti. Tra l'altro i primi orologi comparsi sulle facciate dei campanili delle chiese erano divisi in soli 6 quadranti orari, anzichè i canonici 12: questo perchè non indicavano le singole ore del giorno bensì le ore canoniche in cui dovevano essere recitate determinate preghiere, visto che fino ad allora il giorno era cadenzato dalle ben definite funzioni religiose invece che dalle singole ore.
Nelle fabbriche e nei primi stabilimenti industriali, in vece delle campane, venivano usate delle sirene per avvisare gli operai della fine del turno di lavoro e dell’arrivo dell’ora di pranzo.
Questa consuetudine delle campane, in fondo, appartiene a ciascuno di noi: chi non ricorda la campanella che, ai tempi della scuola, ad ogni ora, segnava qualche minuto di pausa o l’arrivo della sospirata ricreazione?


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La sirena di Piazzale Rosolino Pilo, nel quartiere romano Gianicolense

La tradizione dello sparo del cannone di Mezzogiorno, dal 1847, continuò fino all'agosto del 1903 da Castel Sant’Angelo (prima dalla terrazza panoramica e, pochi mesi dopo, dal piano terra del Castello), anno in cui venne spostato su Monte Mario, per poi essere definitivamente trasferito sul Gianicolo il 24 gennaio 1904.
Durante la Seconda Guerra Mondiale la tradizione fu interrotta perché, purtroppo, gli spari dei cannoni furono ben altri e, in effetti, alla conclusione della guerra, lo sparo del cannone venne sostituito dalle sirene antiaeree, riadattate e poste sui tetti dei palazzi più alti di Roma.
Ma il cannone di Mezzogiorno era oramai una tradizione per la città e perfino Mario Riva, celebre personaggio di spettacolo e conduttore del celeberrimo programma “Il Musichiere”, una delle trasmissioni storiche della RAI, si fece voce delle richieste del popolo romano e chiese formalmente, in diretta televisiva, al Comune di Roma di ripristinare la cerimonia dello sparo. Il 21 aprile del 1959, nell’anniversario della fondazione di Roma, il cannone riprese quindi ad indicare, assieme alle sirene, il mezzogiorno ai romani e tutt’oggi la “salva” del cannone del Gianicolo rimane una delle maggiori attrazioni per i turisti (ma, in fin dei conti anche per gli stessi romani).
A far risuonare nel cielo di Roma quest’ultimo cannone sono un militare graduato (con la carica di "Capo pezzo"), facente parte del 33° Reggimento di Artiglieria Terrestre "Acqui", e due militari della Scuola del Genio.
Ma come hanno fatto, negli anni, questi militari a sapere quando esattamente era il momento di far tuonare il cannone? Dal 1847 al 1925 una grossa sfera nera in vimini, addirittura del diametro di circa un metro e mezzo (in modo da poter essere ben visibile dalla postazione del cannone, distante oltre 1.200 metri !), veniva fatta scorrere su di un'asta lunga sei metri posta sul tetto della Chiesa di Sant'Ignazio, presso l'Osservatorio del Collegio Romano (dove era posta la meridiana che certificava il Mezzogiorno).

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La sfera issata sulla Chiesa di Sant'Ignazio
Illustrazione del XIX secolo

Pochi istanti prima delle 12 la sfera veniva issata sulla sommità dell'asta, affinchè i soldati addetti al cannone potessero tenersi pronti allo sparo, Appena il raggio di luce filtrato dall'oculo raggiungeva la linea del Mezzogiorno della meridiana, la sfera veniva fatta bruscamente scendere. L'ufficiale addetto al cannone certificava l’attimo in cui la sfera giungeva alla base dell’asta con un cannocchiale e, in quell’istante, dava ordine ai soldati di sparare la salva. Successivamente, dal 1925 al 1930, una campanella elettrica, azionata stavolta dall'Osservatorio Astronomico Comunale, suonava per trenta secondi e, appena finito il trillo, l’ufficiale dava ordine di sparare. Dopo la chiusura dell'Osservatorio Comunale il sistema si basò su quattro fari rossi che si accendevano uno dopo l'altro: il momento dello sparo coincideva con l’accensione dell’ultimo faro. Questi fari furono gestiti prima dall'Osservatorio del Collegio Romano e poi dall'Istituto Galileo Ferraris di Torino, che tutt’ora è l’istituto che certifica scientificamente l’ora esatta sul suolo italiano.

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La torre dell'Osservatorio del Collegio Romano

Oggi, invece, il countdown romano avviene tramite un collegamento, sia ottico che telefonico, tra i militari del Gianicolo ed il Campidoglio.

Diversi sono stati, nei decenni, i cannoni che si sono succeduti per questa vera e propria cerimonia giornaliera: dall'agosto del 1904 fu utilizzato un cannone impiegato dall'Artiglieria del Regno d'Italia per aprire la Breccia di Porta Pia. Poi, fino al 1° febbraio 1991, è stato utilizzato un obice che fu preda bellica dell'Esercito Austro-Ungarico nella guerra 1915-18. Attualmente è in uso un obice assemblato che fu impiegato durante la Seconda Guerra Mondiale.
Ma quella del cannone (o delle campane) di Mezzogiorno non è una tradizione soltanto romana: in diversi paesi dell’Alto Adige, infatti, ogni sabato a Mezzogiorno suona la sirena d'allarme. Più che essere un vero e proprio segnale orario, però, è un test di prova di evacuazione (per allertare la popolazione per il pericolo di valanghe o altre calamità naturali) che si ripete ogni sette giorni. Nella città di Trento (ma anche a Rovereto ed a Bolzano, dove le circa 10 sirene, ma arriveranno ad essere 30, iniziano a suonare tutti i sabati alle 11,57 precise) il Mezzogiorno viene scandito dal suono di una sirena che si trova sulla cima della Torre della Tromba ed è la stessa che, durante la Seconda Guerra Mondiale, avvertiva, come in altre città italiane, la popolazione di un imminente bombardamento aereo.
Prima della suddetta guerra, il segnale di mezzogiorno veniva dato mediante una salva di cannone sparata dal Doss Trento, una collina che sorge sulla riva destra dell’Adige negli immediati pressi della città. A seguito della decisione di rendere il monte un parco naturale, si pensò di far risuonare la sirena in sua vece, direttamente dalla Torre della Tromba.
Anche a Teramo c'erano, durante la Seconda Guerra Mondiale, tre sirene antiaeree.
Perfino l’attore e cantante Giorgio Gaber cita la sirena del mezzodì nella sua canzone “A Mezzogiorno”, scritta in origine per l'album di Donatella Moretti "Storia di storie", ed inserita nell’album “I Borghesi”, del 1971.


A mezzogiorno suona la sirena
e lei come ogni giorno è lì che aspetta lui.
Tra qualche attimo son tutti fuori già,
tre quarti d’ora e si riprenderà.
A mezzogiorno suona la sirena
e lei come ogni giorno siede accanto a lui.
Lui la accarezza e poi la stringe forte a se
apre la borsa e guarda cosa c’è.
Insieme mangiano sul prato
quello che lei gli ha preparato.
Poco lontano un aeroplano
lascia una striscia e se ne va...
Ancora un attimo, un bacio e se ne andrà
e la sirena ancora suonerà.
Alcuni giocano a pallone
mangiando l’ultimo boccone.
Sul prato verde qualche giornale
che ora il vento muove un po’.

Per finire questa carrellata di curiosità c’è da dire che in Ungheria i campanili di Budapest a Mezzogiorno iniziano a suonare per ricordare una vittoria, risalente al medioevo, contro l’esercito turco (probabilmente la Battaglia di Mohàcs del 1526).


L'immagine della sfera di vimini sulla chiesa di Sant'Ignazio è tratta da internet, in cui è presente in diversi siti senza l'indicazione della proprietà dell'opera


01 marzo 2011

LE DIECI DONNE DEL PONTE DELL'INDUSTRIA

Questo post è dedicato a tutte le donne morte o che anche solo hanno lottato e lottano per un ideale, per la dignità e per la libertà.

Pochissimi romani, forse neanche tutti quelli che transitano giornalmente sul Ponte dell’Industria (o Ponte di Ferro, come lo chiamano i cittadini della Capitale) e che possono notare la piccola targa posta sulla spalletta destra andando in direzione di Piazzale della Radio, conoscono quest’episodio, che tra l’altro nessun libro di storia riporta.

10 DONNE

Mi riferisco ad un truce eccidio avvenuto il 7 Aprile 1944 nei pressi del ponte suddetto, che collega la Via Ostiense alla Portuense ed a Viale Marconi.
Sulle rive del Tevere, a quel tempo, era attivo un molino/panificio, il Tesei, che riforniva di pane e fungeva da deposito vettovaglie per le truppe tedesche che avevano invaso la città.
Roma, infatti, era al settimo (dei 9) mese d’assedio nazista (nonché al quinto anno di guerra) ed i viveri, peraltro scarsissimi, venivano distribuiti soltanto previa esibizione di una tessera annonaria. Con l’acuirsi della crisi la razione pro-capite del pane venne diminuita da un etto e mezzo ad un etto soltanto e ciò aveva già causato una serie di manifestazioni di protesta da parte di madri di famiglia nel quartiere Appio. Il 6 aprile 1944 un camion carico di pane scortato da militi fascisti fu preso d'assalto, a Borgo Pio, da una folla affamata e disperata e nello scontro uno dei miliziani fascisti perse la vita. Al Tiburtino Terzo alcune donne avevano cercato di introdursi in un deposito di granaglie e, nel tentativo di respingerle, fu uccisa Caterina Martinelli, madre di sette figli. Quindi l’assalto ai forni, da parte della popolazione stremata dalla fame, era un’azione già accaduta in diversi quartieri di Roma: ovviamente, essendo effettuato esclusivamente da donne, anziani e bambini (gli uomini erano stati, volenti o nolenti, arruolati nelle truppe fasciste), erano assalti di popolo, senza armi e senza violenza, “una cosa da donne”. Era quindi consuetudine che, allo spargersi incontrollato della voce che in qualche negozio era arrivato del pane o altri generi alimentari, immediatamente la folla accorreva per arrivare a prendere qualcosa, prima che le razioni terminassero. Finiva sempre che queste donne del popolo, spinte dalla fame e dalla disperazione di dover provvedere in qualunque modo al sostentamento dei figli, assaltassero il negozio in questione portando via quanto possibile. In genere i militi della Polizia Africana Italiana ed i tedeschi intervenivano con degli arresti o qualche sparo in aria, ma tutto finiva. lì
Quel venerdì di Pasqua del ’44 un gruppetto di donne marciò sul molino Tesei, favorito anche dalla complicità del direttore italiano del magazzino che, probabilmente con un espediente, aveva dirottato ad altre mansioni i vigilanti tedeschi; le donne riuscirono quindi ad impossessarsi di alcuni sacchi di farina e di qualche chilo di pane ma, tradite evidentemente dalla spiata di qualcuno (magari proprio altre popolane invidiose in quanto estromesse dall’azione), vennero scoperte ed inseguite dalle Camicie Nere fasciste e dai vigilanti delle SS. Una decina di loro vennero catturate proprio sulla sponda del Tevere. Stanchi dei continui assalti popolari ai forni, fascisti e tedeschi decisero, in questa occasione, di dare un “segnale forte” a tutta la popolazione romana. Alcuni soldati portarono una delle donne sotto il ponte, sulla sponda del fiume, e lì la violentarono. Poi, ancora seminuda e sotto choc, la assassinarono con un colpo di pistola alla testa. Le altre nove, furono schierate lungo il ponte e trucidate a raffiche di mitra. Sembra che sulle campate metalliche del ponte sia ancora possibile rintracciare i fori di alcuni proiettili.
I corpi delle donne, a monito per la popolazione sbigottita, vennero lasciati in terra sotto la vigilanza dei soldati tedeschi e dei repubblichini fascisti fino alla mattina seguente. Accanto ai corpi sanguinanti venne addirittura posto un cartello nel quale si parlava di quella strage definendola un esempio di ciò che, da allora, sarebbe potuto accadere alla popolazione che avesse osato effettuare ulteriori assalti a forni e negozi. Addirittura i militi fascisti, da una parte e dall'altra del ponte, costringevano i passanti ad traversare lo stesso guardando i corpi delle dieci donne uccise.
Soltanto a tarda sera, come fu successivamente riferito allo storico Cesare De Simone (un giornalista del Corriere della Sera che sull’avvenimento svolse notevoli e complicate ricerche, ed al quale si ispirò per il suo romanzo dal titolo “Donne senza nome”) dall’allora giovanissimo parroco di San Benedetto all’Ostiense, alcune suore riuscirono a posare accanto ai corpi delle candele e dei fiori. Queste sono le parole che il parroco riferì a De Simone e che io ho desunto da un articolo, a firma di Wladimiro Settimelli, del 1° Maggio 2005 dall’edizione romana de L’Unità: “Sì, le ho viste. Ho visto quelle dieci donne. O meglio, ho visto i loro corpi. Ero in chiesa e con dei parrocchiani stavo portando via le macerie dopo un bombardamento. Di corsa, erano arrivate della donne che si erano messe a gridare che dovevo correre perché al forno Tesei, le SS avevano preso dieci donne e le stavano per fucilare. Era, lo ricordo bene, il 7 aprile. Corsi e arrivai sul ponte. Le SS mi fermarono e poi arrivò anche uno della “Brigata Nera” con una”'M” rossa sul basco. Mi dissero che tutto era inutile perché le donne erano già state fucilate. Poi, mi portarono sotto il ponte e potei benedire quella creatura tutta nuda ammazzata sul posto”.
In effetti, dall’8 Aprile 1944, non si sa che fine abbiano fatto i corpi delle dieci uccise: secondo il racconto di Pericle Santini, un operaio lattoniere che lavorava nel suo sfascio sulle rive del Tevere e che, assieme ad altri operai, fu costretto sotto la minaccia dei mitra tedeschi, a caricare i dieci corpi su un camion, questi furono seppelliti in una fossa comune al cimitero del Verano.
Dopo la guerra fu posta una lapide in memoria dell’episodio, lapide divelta con un atto vandalico pochi mesi dopo.
Il De Simone, grazie ad un verbale dell’epoca redatto dalla Polizia, riuscì a risalite ai nomi delle 10 donne: Clorinda Falsetti, Italia Ferracci, Esperia Pellegrini, Elvira Ferrante, Eulalia Fiorentino, Elettra Maria Giardini, Concetta Piazza, Assunta Maria Izzi, Arialda Pistolesi e Silvia Loggreolo. Tali nomi sono tuttora incisi nella lapide in pietra e bronzo (opera dello scultore Giuseppe Michele Crocco) che venne posta in una aiuola sulla spalletta del Ponte dell’Industria il 7 Settembre 1977 dall’amministrazione comunale di Roma.

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Malgrado si conoscano i nomi delle donne non si è mai riusciti a risalire alle loro origini: probabilmente si trattava di donne registrate all’anagrafe con il cognome del marito (come usava all’epoca) oppure arrivate a Roma da sfollate da qualche paesino e, quindi, non registrate all'anagrafe romana.

Sull’eccidio, oltre ai rimandi al De Simone, ho trovato traccia anche di due titoli di cortometraggi di Emanuela Giordano (“Le ragazze del ponte” e “7 Aprile 1944 – Storie di donne senza storia”) e di uno spettacolo teatrale (“I dieci angeli del ponte”) scritto da Alessia Bellotto e da Paolo Buglioni.